Commento su Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47
La proclamazione della Passione di Gesù, che la Chiesa propone alla nostra meditazione in questa "Domenica delle Palme", nelle versione dell'evangelista Marco, va interpretata con attenzione, evitando con cura quella lettura emotiva (e letteralistica) così frequente nelle nostre riflessioni e nelle omelie, ma che non spostano di una virgola i nostri atteggiamenti prima di entrare in chiesa (... "meno male che quest'anno si legge Marco, che è breve..."...speriamo che il prete non faccia l'omelia, è già lunga la lettura...); e dopo (...che cosa si mangia, oggi?... Che cosa facciamo per cena...?). La lettura della Parola è una cosa seria; deve impegnare tutta la nostra intelligenza., il nostro tempo, la nostra ragione e non solo la nostra emotività (momentanea); questo a cominciare dall'identificazione dell'Autore. Nella fattispecie la tradizione ci dice che l'Autore è Marco, che scrive verso il 70 d.C.. (e quindi è il primo degli evangelisti in ordine cronologico), ma autorevoli fonti non ne garantiscono la certezza (si vedano, in particolare Raymond E. Brown, Rudolf Bultmann, John Dominique Crassan). È stato proprio quest'ultimo Autore a scrivere la monografia Who killed Jesus? (Chi uccise Gesù?). Ed è da questa domanda che dobbiamo partire.
Da chi. Alcuni dicono "il popolo ebraico", altri accusano l'umanità nel suo complesso, nella sua proiezione storica e spaziale, per i peccati che tutti abbiamo commesso e che stiamo commettendo. Ma le mezze verità non sono convincenti.
Il Concilio Vaticano II ha fatto giustizia della criminalizzazione del popolo ebraico sul quale - in un passato non molto lontano - è stata scaricata la colpa della morte di Gesù. Si tratta di una tesi antistorica, un po' come se il popolo italiano venisse accusato, nella sua totalità, delle nefandezze compiute dal fascismo. Sappiamo che non è così.
Gesù è al termine della sua attività missionaria: ha camminato lungo le strade della Palestina annunciando la buona notizia della liberazione. Arriva a Gerusalemme, accolto festosamente. Avrebbe potuto approfittare della situazione; avrebbe potuto prendere in mano il potere e insediarvisi. Ancora una volta, dopo la tentazione nel deserto, rifiuta questa prospettiva. Sa già che verrà ucciso. Il potere religioso, alleato - come spesso càpita nella storia - con il potere politico, ha già deciso: Gesù "deve morire". La crocifissione di Gesù fu decisa a tavolino, dai gran sacerdoti e dai capi religiosi. Uno di loro era Caifa, sommo sacerdote in quell'anno. Lo racconta Giovanni (è utile abituarci a leggere i Vangeli confrontandoli tra loro): "Voi non capite! - disse ai capi dei sacerdoti e ai Farisei riuniti in tribunale - Non vi rendete conto che è meglio per voi la morte di un solo uomo piuttosto che la rovina di tutta la nazione" (Gv 11,49-50). È la ragione di Stato. Ci siamo ormai abituati a vederla anteposta al valore permanente ed essenziale della persona. Per Gesù non c'è scampo. Non c'è scampo per la libertà quando i poteri religiosi e il potere politico si alleano. C'è solo spazio per i Concordati. A riprova, varrebbe la pena considerare la pena inflitta a Gesù: la morte per crocifissione. La storia ci dice che, al tempo di Gesù, la pena della croce veniva inflitta ai sediziosi, agli oppositori ("malfattori", dicono i Vangeli; in realtà oppositori al potere). Quanti oppositori al potere anche oggi vengono imprigionati ed uccisi!
Perché. Perché viene ucciso Gesù con un'esecuzione in piena regola? I Vangeli lo dicono chiaramente. I meccanismi istituzionali di difesa messi in atto dal potere religioso alleato a quello politico della colonia romana, non potevano che aver ragione di un profeta disarmato. Lui, sì, era disarmato: non tutti i suoi discepoli lo erano: Pietro aveva una spada; gli "zeloti" si opponevano al potere degli oppressori con le armi e l'apostolo Simone (definito da Marco "il Cananeo") viene definito da Luca come "lo zelota"; Giuda è definito "l'Iscariota" (che significa "sicario", dunque un portatore di armi). No, Lui, Gesù è disarmato. Ma era ugualmente "sedizioso" per il potere religioso-civile. "Immorale", "irrispettoso della Legge", "irrituale", addirittura "blasfemo". Gesù era un uomo che sedeva a tavola con i peccatori; che aveva avuto il coraggio di non condannare l'adultera, svergognando coloro che si accanivano contro di lei; che aveva avuto il coraggio di affermare che i peccatori e le prostitute avrebbero preceduto i Farisei e i benpensanti nel Regno dei cieli; che non rispettava neppure il sabato, anteponendogli le esigenze della persona; che aveva avuto la sfacciataggine di dire a una Samaritana - cioè a una donna "impura", oltre che di dubbia moralità: "Viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte [il monte Garizìm] o a Gerusalemme; viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio" (Gv 4,22-24). Un uomo che aveva osato violare (come abbiamo letto nella terza domenica di Quaresima) la sacralità del Tempio. Un uomo così, che sconvolgeva le sicurezze secolari e la tranquillità delle Istituzioni, non poteva creare altri danni.
Per questo Gesù muore. Solo. I Dodici lo abbandonano; uno di essi lo tradisce e lo consegna agli esecutori; Pietro lo rinnegherà tre volte; gli altri se la danno a gambe, alla chetichella. Un fallimento totale? No. Perché Gesù li ama anche se fuggono, se lo tradiscono, se lo negano. Uno di loro sarà addirittura il primo Papa. Altri subiranno in suo nome il martirio. Potenza dell'amore! Gesù ama comunque. Gesù ci ama comunque, nelle nostre fragilità. Solo alcune donne gli sono vicine: una, addirittura, gli unge il capo con un profumo prezioso, scandalizzando i benpensanti. Solo un cuore di donna può capire. Ma tutti dovremmo avere un cuore di donna. Anche - e soprattutto - nella Chiesa, in cui le donne fanno ancora fatica a essere riconosciute e accettate come protagoniste... Quanti secoli ancora?
Così scrive Paolo alla comunità di Filippi, in uno dei primi grandi testi teologici (al quale è però opportuno affiancare una lettura antropologica) molto importante anche per le possibili implicazioni nei confronti dei temi della coppia e della famiglia:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,5-11).
Gesù non è solo un modello da imitare da parte di ogni cristiano (e di ogni essere umano). Lo sforzo che soprattutto dobbiamo fare - come singoli, come coppia, come famiglia - è quello di interiorizzare (avere, sentire in noi) gli stessi suoi sentimenti. E quali sono questi suoi sentimenti? Ecco: pur essendo di natura divina (cioè pur essendo Dio) egli considerò questo suo essere Dio come un dono e non come un tesoro geloso (ma sarebbe più corretto dire "una rapina"); per questo, come dice il testo greco, eautòn ekénosen, si annichilò, si annientò, si spogliò, spogliò e privò se stesso, si "svuotò" di questo essere uguale a Dio, potremmo anche dire "depose il suo Io", assumendo la condizione di servo, e quindi, in questo senso, venendo riconosciuto come uomo. Il vero uomo, infatti, è il servo di tutti (non lo schiavo, servo di un padrone terreno che lo sfrutta, ma il servo, colui che si mette a disposizione degli altri. La condizione vera di ogni uomo e di ogni donna è il servizio; l'essere umano è il "servo" di Dio e - in termini filosofici e laici - il "servo" dell'umanità: ma le due posizioni a ben vedere coincidono, perché nell'Evangelo l'amore di Dio e l'amore del prossimo non sono disgiungibili. L'amore di Dio è l'amore del prossimo, l'amore del prossimo è l'amore di Dio. E Gesù umiliò se stesso (si "incarnò", cioè, divenne "uomo" e "servo") fino alla morte e addirittura ("e", nel testo che abbiamo letto, ma in latino "autem") fino alla morte di croce, che non è certo la morte che si confà all'uomo, ma è la morte dello schiavo.
Si tratta, come afferma Franco Rodano in Lezioni di una storia possibile, Marietti, Genova 1986, pp. 65-94, di un superamento di quella "ideologia signorile" (che pure staziona ancora dentro di noi) attraverso la proposta di un ideale di uomo "diverso", quindi di una nuova concezione antropologica e teologica di "obbedienza".
Per ogni persona disposta a vivere come Gesù nella ricerca dell'obbedienza vera, non esiste situazione più difficile di quella in cui si deve scegliere se dire "sì" o "no". Perché si può obbedire per necessità, per convenienza, per calcolo, per amore di tranquillità, per timidezza, per paura... Si può obbedire alla lettera della Legge, evitando di entrare nel suo spirito. Si può fingere di obbedire: un'obbedienza formalistica che non farà mai crescere la storia, né lievitare il Regno. In fondo, anche nostro fratello Giuda è stato un obbediente formalista: il Maestro aveva preso una "cattiva" strada ai suoi occhi: era necessario salvare l'ortodossia; per questo serviva un'obbedienza cieca che si rivelò poi in tutto il suo grottesco tragico. Anche Gesù avrebbe potuto essere un formalista. Avrebbe avuto la possibilità di entrare in Gerusalemme e insediarvisi, come hanno fatto, e fanno, molti uomini di Chiesa. Godere dentro di sé per gli onori, per gli "Osanna al Figlio di Davide", e cercare di mantenerli, evitando di scendere agli inferi di Gerico, perché in quella discesa si trovano i feriti della storia con i quali è rischioso avere troppi contatti. Non è difficile smascherare questo modello di obbedienza. Il dramma però è che, per ragioni speculari alle prime, si può essere anche disobbedienti: per aggressività, per il gusto della sfida, per un malinteso senso del rischio, per una sorta di anticonformismo di maniera, per ribellione... Tra questi due poli, tra l'obbedienza formalistica e la disobbedienza aggressiva, si trova la persona adulta, quella che ha interiorizzato non la norma, ma lo spirito della Legge, quello che ci conduce in un cammino per passare dalla schiavitù alla libertà. Per il credente il modello ultimo di questo cammino è il Cristo. Lui che "abbassò se stesso, fu obbediente fino alla morte di croce "(Fil 2,8).
Ma c'è un'altra conseguenza vitale importante: se la condizione "ideale" dell'uomo e della donna è quella di "servi"; e se la condizione di "servo" è contraddistinta da una condizione di "limite" (limite di potere, anche di "cultura", impossibilità di accedere ai beni che si desiderano, fragilità...), si comprende come la tensione verso l'Assoluto sia inattingibile se non attraverso la consapevolezza e l'accettazione di questo limite. Come a dire: solo se saremo "servi" gli uni degli altri, solo in una condizione accettata e costantemente perseguita di servizio, potremo cogliere l'Assoluto, tendere a lui dalla nostra stessa condizione di creaturalità.
Ci sono coppie e famiglie forse un po' "scalcagnate", considerate "fuori" della norma, in cui tuttavia l'Assoluto si fa presente perché i loro componenti, magari con grande fatica, sono capaci o almeno tentano - ad imitazione (non sempre e necessariamente consapevole) di Gesù - di vivere questa condizione di servizio reciproco, come possono e come sanno, certo, ma pur sempre fidandosi ed affidandosi a vicenda e scoprendo così a poco a poco la sovrabbondanza del dono. La comunità cristiana non può emarginare queste coppie e queste famiglie, chiudendosi in una sorta di protezionismo spirituale, ma deve stare in mezzo a loro, coinvolgerle, scoprire la ricchezza che esse possiedono. Fare comunione con loro. Molte volte ci accorgiamo di non avere parole per il dialogo con esse, ed è allora che possiamo - come era solito dire il cardinal Martini - intercedere, cioè proprio "inter - cedere", camminare in mezzo, che significa incominciare con il vivere insieme con loro, imparando ad apprezzarci a vicenda ancora prima di intraprendere un dialogo esplicito. Se portiamo assieme la croce, la fatica si fa meno pesante.
È la prospettiva annunciata da Isaia:
Dio, il Signore, mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro...(Is 50,5).
A qualunque condizione, come Gesù: "Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi...(6). E come Simone di Cirene (cf Lc 23,26), il discepolo porta la croce (ogni discepolo porta la sua croce). Così come molte coppie di fidanzati e di sposi portano sulle spalle la loro croce pesante e spesso, come Gesù, inciampano per strada e cadono, per la stanchezza, il dolore, l'angoscia, la fragilità, l'incapacità di comunicare... Gesù è vicino a queste coppie, Lui che ha provato la fatica del cammino; come è vicino ai "malfattori" per i quali si apre una strada di salvezza, e vicina deve essere dunque la comunità cristiana, disposta sempre a fare scelte, anche contro corrente o non comprese, a favore di chi fa più fatica, di chi soffre per situazioni difficili, senza porsi mai su un piano di giudizio e di ammirazione o di autocompiacimento per la sua "perfezione".
La croce non è solo al centro delle letture di questa Domenica delle Palme, è al centro di tutta la nostra vita e della storia. Anzi, è solo partendo da essa che possiamo, a ritroso, ri-leggere e ri-narrare la vicenda di Gesù. Spesso la banalizziamo, la croce di Cristo. Essa non è una croce qualunque; e le croci che ci ingombrano il cammino ai crocicchi delle nostre strade, nei lebbrosari dell'Africa, nelle favelas del Brasile, nei barconi dei profughi, sotto le bombe sganciate dagli imperialismi d'ogni colore, complici i mercanti di armi, anche italiani, nei luoghi dove vengono appesi e dimenticati uomini e donne d'ogni fede, di ogni razza, di ogni età, nelle case dove vivono coppie in crisi, "irregolari", angosciate... non sono croci qualunque.
Per questo la croce non va mai esibita, non va mai trasformata in oggetto di scandalo, come quelle sugli scudi dei soldati di Costantino, o quelle d'oro e tempestate di pietre preziose portate da molti uomini di Chiesa, o da ricche signore esibizioniste. La croce è una cosa seria. È il caso più serio della vita. Perché è su di essa che il Cristo ha avuto il coraggio di gridare: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché rimani lontano e non m'aiuti? Perché non ascolti il mio pianto?" (Sal 22 [21],2).
No, Dio non abbandona chi sceglie l'obbedienza a Lui e allo Spirito che Egli ci dona e che plasma la nostra coscienza. L'obbedienza del Cristo è stata una scelta d'amore al Padre e ai fratelli. Davvero la pedagogia del nostro Dio è spesso strana: Egli ci dona la vita attraverso la morte, la ricchezza attraverso la povertà, la gioia attraverso le lacrime, la libertà attraverso l'obbedienza alla sua Parola.
Per questo, anche per noi, come per Gesù, è possibile che venga il momento in cui ci troviamo costretti a scegliere la "fedeltà". Obbedire o disobbedire, allora, potrebbe essere l'atto più onesto della nostra vita.
Traccia per la revisione di vita
- Che cosa suggerisce oggi alla nostra coppia e alla nostra famiglia la "Passione" di Gesù?
- Che cosa mi suggerisce l'atteggiamento dei discepoli verso Gesù; e che cosa mi suggerisce l'atteggiamento di Gesù verso i discepoli?
- Che cosa significa, per me, avere "un cuore di donna"?
- Siamo disposti in famiglia a portare reciprocamente le nostre croci, con la "pazienza" di Gesù, cioè con la sua disponibilità a "patire-con" noi?
- Siamo capaci di cogliere il mare di sofferenza, di fatica e di angoscia che è attorno a noi e a rinunciare ai nostri atteggiamenti superficiali e giudicanti?
- Sappiamo ricostruire e rileggere a partire dalle croci disseminate lungo il nostro cammino, tutta la nostra storia e la storia di chi ci sta accanto?
Luigi Ghia - Direttore di "Famiglia Domani"