Omelia (09-05-2021)
mons. Roberto Brunelli
Avere fede significa vivere nella gioia

Secondo un vecchio detto popolare, "siamo nati per patire", e sembrano corrispondervi certe storie di santi, certe immagini che accade di vedere dentro le chiese, certe prediche vecchio stile; insoma pare aver ragione chi ritiene il cristianesimo la religione della rinuncia, del sacrificio, della penitenza; insomma, di una vita triste che si priva di quanto può piacere. Ebbene, chi avesse una tale idea della fede cristiana resterà sorpreso dal vangelo odierno (Giovanni 15,9-17), costituito da un brano del discorso di Gesù durante l'ultima cena, in cui tra l'altro egli afferma: "Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena".
La gioia, e non certo la tristezza, è l'autentico stato d'animo del cristiano; la gioia vera, che non consiste nell'allegria sguaiata dei bagordi o nel possesso ad ogni costo di quanto attira e poi lascia regolarmente delusi; la gioia vera, che non chiude gli occhi di fronte alle difficoltà, ma non si fa imprigionare da esse; la gioia vera, che non coltiva sterili nostalgie o utopistici sogni. La gioia vera, che poggia sull'essere in pace con la propria coscienza e si apre a realistiche prospettive future, nella consapevolezza di essere amati. Essere amati, ancor prima e più che amare, ed essere amati sempre, di un amore che non viene meno qualunque cosa succeda.
Se poi ci chiediamo chi può dare all'uomo questa sicurezza, la risposta è: non certo un suo simile. Per quanto bello e appagante, anche nei casi migliori l'amore umano è precario, spesso viziato da egoismo, minato da incomprensioni e non sempre corrisposto. Solo Dio ci ama senza riserve, e per sempre. Ancora il vangelo di oggi: "Come il Padre ha amato me, anch'io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi".
Se si pensa a come la divinità è concepita in altre religioni - un padrone da temere, magari dispotico e capriccioso, cui sottomettersi senza discutere - si comprende quanto innovativi siano i rapporti manifestati da Gesù. Egli chiama gli uomini non servi ma amici! Amici perché destinatari delle sue confidenze, ammessi alla sua intimità; amici perché amati, al punto da dare per loro la vita; amici perché per loro è preparato un posto nella sua casa. Poggia qui la ragione fondamentale del perché il cristiano, indipendentemente da quanto può accadergli nella vita, possiede la gioia.
L'amore autentico, si sa, non si compera né si impone: si offre. E anche questo dimostra che Dio ci ama davvero: non ci obbliga ad accettare il suo amore; proprio perché ci ama, rispetta la nostra libertà; sta a noi decidere se accoglierlo, contraccambiandolo. Ma come può l'uomo, con tutti i suoi limiti, contraccambiare il suo amore infinito? "Rimanete nel mio amore", dice ancora Gesù, cioè amatemi anche voi; "se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi". Dunque, si ricambia l'amore di Dio amando il prossimo.
In un altro scritto, la prima delle sue tre lettere entrate a far parte della Bibbia, l'evangelista Giovanni fa propri quei discorsi del divino Maestro con queste parole, che costituiscono la seconda lettura di oggi. "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati". Sono parole preziose, anche perché comprendono la più perfetta definizione di Dio che sia mai stata data: Dio è amore.