Omelia (23-05-2021)
mons. Roberto Brunelli
La Pentecoste tra fede e ragione

Il vangelo di oggi (Giovanni 16,12-15) comprende una promessa fatta da Gesù agli apostoli, prima di tornare al Padre: "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità tutta intera".
La promessa si è adempiuta pochi giorni dopo l'Ascensione, il giorno di Pentecoste, nei modi clamorosi ricordati dalla prima lettura (Atti degli apostoli 2,1-11): "Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo".
Ricolmi di una forza inattesa, gli apostoli escono e si mettono a parlare alla folla cosmopolita ("di ogni nazione che è sotto il cielo") presente in quei giorni in città (la Pentecoste era già una festa per gli ebrei) e, sorpresa, si fanno capire da tutti: gli ascoltatori, "stupiti e fuori di sé per la meraviglia, dicevano: Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?'
Comunque si voglia intendere questo fatto singolare, ne è chiara la valenza simbolica: richiamando per contrasto la torre di Babele, quando l'umanità si frantumò in tanti popoli diversi, incapaci di capirsi l'un l'altro, la predicazione degli apostoli dopo ricevuto lo Spirito Santo vuol dire che l'adesione a Cristo da parte di genti diverse le unifica, superando ogni divisione. La fede è fondamento di unità: che non significa uniformità; anzi, le differenze costituiscono una reciproca ricchezza; unità significa libera adesione a un comune progetto, rispetto reciproco, solidarietà, collaborazione. E' quello che, su comando del suo fondatore, cerca di realizzare la Chiesa: pur con tutti i limiti umani, la Chiesa è la casa comune in cui liberamente si ritrovano uomini e donne, tra loro diversissimi per lingua, colore della pelle, cultura e posizione sociale; vi si ritrovano da fratelli, mossi dallo stesso fine.
Certo, il condividere la stessa fede è un potente incentivo a superare conflitti e divisioni, senza i quali questo mondo sarebbe di gran lunga migliore. E allora viene da chiedersi se quanto accade in nome della fede non lo possa perseguire anche chi la fede non l'ha. Non tutti credono, ma tutti sono dotati di ragione; tutti sanno vedere come divisioni e conflitti nascano da libertà conculcate, da solidarietà negate, da opinioni erette a verità indiscutibili, da dignità non riconosciute: tutti atteggiamenti contrari alla sana ragione e perciò a parole riprovati da tutti, singoli e governi, e però ogni giorno praticati, con i più diversi pretesti.
Un esempio, suggerito dall'espressione "Di ogni nazione che è sotto il cielo". Sul piano dei rapporti tra le nazioni, i meno giovani tra i lettori ricorderanno di avere assistito, nell'arco della loro vita, a tendenze tra loro contrastanti: da un lato faticosi tentativi di unità (la Comunità europea, le Nazioni unite...) e dall'altro casi clamorosi di frammentazione (l'ex-URSS, l'ex-Jugoslavia...). Nelle relazioni internazionali è proprio utopico, anche in nome della ragione senza la fede, prendere a modello i criteri che tengono insieme gli uomini nella Chiesa? Pur nelle legittime distinzioni, libertà e solidarietà possono davvero essere i pilastri su cui poggiare un mondo nuovo.
Forse però, anche in questo caso bisogna cominciare dal basso, dai rapporti tra gli individui: se libertà (che comporta il rispetto reciproco) e solidarietà (rinuncia agli egoismi che danneggiano gli altri) diventassero l'abituale stile di vita dei singoli, per forza di cose finirebbero per instaurarsi anche tra le nazioni. Allo scopo, riconosciamolo anche in base all'esperienza storica, un incentivo più forte della ragione, tante volte astratta e disincarnata, è la fede, che invita a riconoscerci figli dello stesso Padre e quindi fratelli tra noi.