Omelia (23-05-2021)
Michele Antonio Corona
La parola giusta è sempre quella pronunciata dall'amore

Nel vangelo della solennità dell'Ascensione abbiamo ascoltato una promessa di Gesù: parleranno lingue nuove. Forse questo concetto non era ben chiaro e ci ha fatto pensare a tante cose, soprattutto prodigiose. La solennità della Pentecoste realizza quella promessa e gli Apostoli parlano subito lingue nuove. Non si tratta di idiomi inventati o di rivoluzionari grammatiche, ma di un linguaggio che raggiunge tutti, che rinnova tutti, che è comprensibile a tutti.

L'episodio della torre di Babele (I lettura della Messa vespertina) sottolinea la possibilità di usare il parlare per dividersi, per costruire gruppi e fazioni, per distinguersi. Il linguaggio dello Spirito della verità - che scende nel Cenacolo come lingue di fuoco - mette in relazione, crea comunità, relativizza gli ostacoli.

Spesso si sente dire non ci capiamo più. Questa affermazione genera allontanamento tra le coppie, sancisce la fine di un'amicizia, segna la chiusura dei rapporti in una comunità cristiana, motiva l'abbandono di una consacrazione religiosa. Non capirsi più equivale a non parlare più un linguaggio comune. Quando ci si innamora, si vive il principio contrario: ci capiamo benissimo, anche solo con lo sguardo. Ecco che il linguaggio nuovo dello Spirito non è un semplice traduttore simultaneo, simile a ciò che viene sparato negli auricolari dei partecipanti a un convegno o consesso internazionale; ma è il linguaggio dell'amore, della concordia, della benevolenza reciproca. Quante volte può essere capitato anche a chi legge di incontrare o collaborare con qualcuno senza capirne la lingua, eppure vivere una bella esperienza di comunione!

La lettera ai Galati pone due realtà, la carne e lo spirito, in contrapposizione, presentando i frutti di entrambi. Si riconosce il valore di un albero spesso dai suoi frutti, e non solo dalle sue foglie o dalla sua maestosità. Si attende il tempo dei frutti e della loro maturazione per decretarne la qualità. Paolo ci suggerisce di guardare i frutti, i nostri frutti, per comprendere quale scuola stiamo frequentando, in che direzione sta andando la nostra esistenza, quale sia la Legge sotto la quale viviamo: lo spirito o la carne? Viviamo con amore aperto o con possessività soffocante? Il nostro sguardo è magnanimo o avido? Educhiamo per liberare o per incatenare? Costruiamo per consegnare o per celebrare noi stessi? Parliamo per trasmettere o per convincere? La nostra tensione pastorale ed educativa è incline a moltiplicare o a dividere? Dedichiamo più energie alle relazioni armoniche o al disordine?

Domande che possono aiutare la riflessione personale e comunitaria, ma che devono trovare la loro origine nell'ascolto dell'unico linguaggio capace di giungere e far giungere alla verità.

Dunque, la solennità del 50mo giorno è possibile definirla la festa del linguaggio nuovo, della comunione rinnovata, della fraternità ritrovata. Nel Figlio siamo fatti figli, allo Spirito affidiamo i nostri linguaggi separati perché ne faccia uno comune e comunitario. Con il dono dello Spirito cade la scusa del non ci capiamo più.