Omelia (30-05-2021)
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COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di don Massimo Cautero

Oggi celebriamo il mistero più alto della nostra fede, la fonte di tutto e a cui tutto deve tornare: la Trinità. Questa volta, meditando sulle letture di questa domenica, ho reputato che sia bene riflettere un poco sulle origini della fede perché reputo sia urgente, in questi nostri tempi di opinioni e confusioni, ricordare che la rivelazione della Trinità, la fede stessa nel Dio Uno e Trino, è un dono fatto da Dio a noi figli e, come tutti i doni, deve essere accolto e custodito, come lo è stato da sempre nella Chiesa e, proprio grazie a questa custodia ed accoglienza, compreso per quello che è nonostante i limiti della mente umana che, da sola, mai potrebbe capire nulla di questo mistero.
Sant'Agostino scriveva che "è rara l'anima che, parlando della Trinità, sa di che cosa parla" (Conf. XIII, II). Si tratta di un'impresa - come fu rivelato in sogno ad Agostino stesso - non meno disperata di quella di un bambino che tenta di vuotare il mare servendosi di una conchiglia.
La fede cristiana è fede in un Dio unico in tre persone. Il monoteismo trinitario è la più profonda delle novità religiose apportate dal cristianesimo, quella, in ogni caso, che lo distingue sia dalla fede ebraica (il Dio unico) sia da quella delle genti (più dei). Anche oggi, essa è la sua caratteristica di fronte a tutte le altre religioni del mondo ed è uno dei segni più persuasivi della trascendenza del mistero cristiano. Da soli, infatti, gli uomini non vi sarebbero giunti mai. I primi cristiani, provenienti dall'ebraismo, dovettero passare attraverso una conversione intellettuale profonda per poterlo accettare, dovettero spogliarsi di tutte le loro certezza teologiche e accettare il dato di fatto che Gesù ci ha rivelato. Esso, infatti, apparentemente (ma solo apparentemente) costringeva a rimettere in questione quello che costituiva il loro più grande vanto, e cioè il monoteismo biblico, per cui si distinguevano da tutte le credenze del tempo e si sentivano eredi della fede d'Israele.
Ma se il mistero trinitario è la struttura più originaria della fede cristiana, allora esso deve anche essere il suo criterio; tutto, in altre parole, nel cristianesimo, deve essere in qualche modo "trinitario"; deve, per così dire, portare il marchio della Trinità da cui promana e a cui conduce. In primo luogo, la preghiera che, nella forma più genuina e più profonda, è sempre invocazione rivolta al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo.
E questa, io credo, la riscoperta più urgente da fare per la fede di oggi. Si tratta di una coscienza che fu vivissima nei primi secoli della Chiesa, quando tutto il popolo cristiano combatteva "per la difesa della santissima Trinità", ma che è andata poi affievolendosi, specie in occidente, per fare posto a una pietà centrata o su Dio (inteso in senso unitario, come essenza divina), o su Gesù Cristo. Basta rileggere con occhi attenti le espressioni della nostra fede (formatesi, appunto, in quei primi tempi), per riscoprirvi, immutata, tutta la sostanza della fede trinitaria della Chiesa. Il Credo ha una struttura trinitaria; la celebrazione eucaristica, a sua volta, è tutta retta da un impianto trinitario, sia nel suo insieme (il Canone è una preghiera rivolta al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo), sia nelle singole parti (dossologie, trisagio, prefazio, segno della croce, ecc.). La grazia stessa è trinitaria; ciò appare soprattutto nell'amministrazione del Battesimo, il quale - come ci ha rivelato il Vangelo di oggi - coinvolge tutte e tre le persone divine (Battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo) e stabilisce un rapporto particolare - di figlio, di fratello o di tempio con ognuna di esse: "Lo Spirito attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio... e coeredi di Cristo" (2^ lettura).
Il mistero della Trinità non è dunque scomparso dalla vita della Chiesa; basta rimuovere certi strati sabbiosi, perché la pianta dell'edificio della fede torni a brillare in piena luce. Riscoprire la Trinità è un'esperienza sempre lievitante per la vita spirituale ed è anche una necessità per la fede e per la teologia. Appena, infatti, si offusca la fede nel Dio trino, anche tutto il resto si appanna e, ma di ogni altra cosa, Gesù Cristo. Tra i due «principali misteri della fede» c'è una reciprocità totale: negando l'esistenza eterna della Trinità, si nega la divinità di Cristo e viceversa.
Nel parlare della Trinità, si deve partire sempre Trinità per noi, cioè dalla Trinità che si è manifestata concretamente nella storia e che ha, per così dire, intrecciato la sua vita con la nostra (non, quindi, dalla Trinità in sé, che esisteva prima del tempo e della storia). E il minimo seguito, di fatto, dalla teologia: alla Trinità in sé la teologia giunse partendo dall'esperienza della Trinità liturgia e nella storia della salvezza.
Il piano della salvezza porta, infatti, l'impronta Trinità; anzi, è la Trinità stessa nel suo manifestarsi a noi. San Paolo, nell'Epistola agli Efesini ne descrive così i vari momenti:
a) Dio Padre ha concepito il disegno di fare l'uomo un suo figlio, riunendo in Cristo tutte le cose;
b) ha mandato a questo scopo il Figlio suo nel mondo, il quale, mediante la sua passione e morte, redenti e ci ha incorporati a sé, facendo di noi "dei" adottivi dello stesso Padre e dei coeredi della sua gloria;
c) questa salvezza, operata da Cristo una volta tutte, diviene attuale nella Chiesa e nel singolo credente mediante l'infusione dello Spirito Santo.
E uno schema, del resto, che si può ritrovare, senza fatica, anche attraverso il Vangelo di Giovanni, dove presenta in questi termini:
a) Dio Padre ama il mondo;
b) egli manda, perciò, il Figlio unigenito perché salvi il mondo;
c) al termine della sua opera, Cristo invia il Paraclito, lo Spirito di verità che condurrà la Chiesa a tutta la verità e a tutta la santità.
L'unità del piano salvifico riflette l'unità dei suoi realizzatori, come l'unità di stile di un'opera d'arte tradisce l'unità della mano che vi ha lavorato.
Questa la via scelta da Dio per rivelarsi agli uomini nella sua realtà intima. Una via imperscrutabile, come la chiama san Paolo (cf. Rom. 11, 33), ma anche una via piena di condiscendenza, come la chiamavano i Padri della Chiesa. Così facendo, infatti Dio si è accomodato alle capacità dell'uomo: «Nell'Antico Testamento
-scrive san Gregorio Nazianzeno- si è rivelato chiaramente il Padre e ha cominciato a rivelarsi in maniera ancora velata e oscura il Figlio. Nel Nuovo Testamento, si è rivelato chiaramente il Figlio e ha cominciato a farsi luce a lo Spirito Santo. Adesso (nella Chiesa), lo Spirito abita in mezzo a noi e si rivela apertamente. In tal modo, per successive conquiste e ascensioni, passando di chiarezza in chiarezza, era necessario che la luce della Trinità brillasse davanti ad occhi già iniziati alla luce» (Orazione (sullo Spirito Santo) 31, 26).
Una volta che questa «luce della Trinità» fu interamente manifestata, cominciò nella Chiesa la riflessione teologica su di essa, e questa portò alla fede nell'unità di natura e nella trinità di persone in Dio, definita solennemente nei concili ecumenici di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Non si deve pensare, però, che la teologia trinitaria si sia accontentata di trovare uno schema concettuale, o una formula come quella di "una essenza e tre persone": si tratta di qualcosa di ben più profondo e spiritualmente ricco. Lungi dal ridurre Dio ad un rebus matematico, il pensiero cristiano ha messo in luce che Dio è in se stesso comunione d'amore. La pluralità delle persone trova qui il suo fondamento: Dio è amore (1 Gv. 4, 16); per questo - aggiungiamo noi - è Trinità. L'amore, infatti, è una realtà intersoggettiva e interpersonale; è circolazione di vita, dunque movimento e tensione (se è lecito usare questi concetti parlando di Dio; suppone un «io e un «tu» e un «noi» ("meno che fra due persone non ci può essere amore", diceva san Gregorio Magno).
Sant'Agostino è stato colui che ha visto con più chiarezza tutto ciò e ne ha fatto la base della sua dottrina trinitaria. Egli propone una Trinità d'amore, in cui il Padre è l'amante, il Figlio l'amato e lo Spirito Santo l'amore (cf. De trin. VIII, 10, 14; IX, 2, 2).
Noi non possiamo dimostrare l'esistenza della Trinità; da soli, senza la rivelazione - si diceva -, non ci saremmo mai arrivati. Ma, una volta conosciutala per rivelazione di Gesù Cristo, noi intuiamo che se Dio esiste non può essere che così, cioè uno e molteplice, oggetto e soggetto, personale e impersonale insieme.
Il mondo stesso, a pensarci bene, non si giustifica, nella sua esistenza, se non a partire da questo concetto di Dio. Perché Dio creerebbe il mondo e l'uomo, se non per continuare ed espandere al di fuori di sé un dialogo d'amore già esistente in se stesso? In questo (ma in questo soltanto!), vale l'analogia umana: nessuna vita nasce infatti nel mondo se non perché esistono già due persone che si amano tra di loro; è il loro amore reciproco che suscita il desiderio di un figlio che sia l'espressione concreta ed eterna di quello stesso amore. Le creature ci appaiono davvero come delle faville sprigionatesi da una fornace accesa ben prima che il mondo fosse. Noi esistiamo perché esiste la Trinità; siamo i cagnolini che si nutrono delle briciole (ma quali briciole!), cadute dalla mensa loro padroni (cf. Mt. 15, 27).