Omelia (06-06-2021) |
diac. Vito Calella |
Il “patto di sangue” della diaconia La celebrazione del "patto di sangue" alle pendici del monte Sinai vissuta da Mosè col popolo Il popolo di Israele era in cammino verso la terra promessa. Era stato liberato dalla schiavitù in Egitto con il passaggio attraverso le acque separate del Mar Rosso. Mosè lo aveva guidato fino al Sinai e, salito sul monte a nome del popolo, aveva ricevuto le tavole dei dieci comandamenti: erano le condizioni essenziali perché le tribù di Israele continuassero a vivere libere e in pace. Ci voleva il consenso di tutto il popolo a riconoscere Dio come unico Creatore e Redentore e a impegnarsi a vivere relazioni umane basate sul rispetto dell'altro, secondo le indicazioni delle parole del Signore. Abbiamo ascoltato oggi dal libro dell'Esodo che, appena sceso dal monte Sinai «Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: "Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!"» (Es 24,3). Quella promessa collettiva di impegnarsi a ricordare e a mettere in pratica i dieci comandamenti, non era sufficiente. Doveva essere celebrata liturgicamente con due riti: quello della proclamazione solenne del libro dell'alleanza e, a seguire, la celebrazione del "patto di sangue", mediante alcuni giovenchi sacrificati. Furono dunque immolati degli animali sull'altare che Mosè aveva fatto costruire per l'occasione, con dodici stele rappresentative delle dodici tribù del popolo. Si usò il sangue dei giovenchi per realizzare il sacrificio di comunione: una metà veniva sparso sull'altare per rappresentare la fedeltà di Dio all'alleanza e l'altra metà veniva usato per aspergere il popolo lì presente. Si trattava di un vero e proprio "patto di sangue", tipico di tante culture di popoli. Il patto era basato sul libro dell'alleanza, soprattutto sulle parole dei dieci comandamenti: «Mosè prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto". Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!"» (Es 24,7-8). La celebrazione del "patto di sangue" nell'ultima cena pasquale di Gesù con gli apostoli Gesù, prima di essere «consegnato» da Giuda Iscariota alle autorità giudaiche (come ci ricorda Mc 14,10.18), prima di essere «consegnato» dalle autorità giudaiche a Pilato (Mc 15,1), prima di essere «consegnato» da Pilato alla folla per essere crocifisso (Mc 15,15), volle celebrare la cena pasquale con i suoi discepoli, proprio nel primo giorno degli Azzimi, quando cioè tutte le famiglie del popolo di Israele si riunivano per ricordare la liberazione dall'Egitto e rendere grazie a Dio per quell'evento che le aveva fatte nascere come popolo di Dio dalle acque del Mar Rosso. Ma Gesù, in quella cena ebraica, volle ricordare anche la celebrazione dell'alleanza realizzata da Mosè sotto il monte Sinai con quel "patto di sangue", come abbiamo ascoltato dal libro dell'Esodo. Mosè aveva realizzato quel rituale usando il sangue di giovenchi sacrificati sull'altare di dodici pietre. Il contenuto del "patto di sangue" erano state le parole del Signore attestate nel libro dell'alleanza, soprattutto nei dieci comandamenti. Gesù realizzò il rito del "patto di sangue", usando il calice del vino, quello proprio della cena pasquale, che veniva bevuto liturgicamente per quattro volte, come gratitudine al ricordo della liberazione dalla schiavitù d'Egitto. Gesù realizzò il rito del "patto di sangue" pronunciando parole inaspettate per i suoi discepoli e per tutti noi, umanità, inclusi nei «molti», quando pregò la benedizione col vino dell'ultimo giro del calice. Quel vino diventava il suo proprio sangue: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti» (Mc 14,24). Non si trattava più di un "sangue" preso dal sacrificio di animali. Il nuovo "patto di sangue" realizzato da Gesù in quella cena pasquale, a ricordo dell'antico "patto di sangue" fatto da Mosè sotto il Sinai, non era più sulle parole del libro dell'alleanza, ma era basato sulla sua stessa persona, volutamente fatta rappresentare dal pane azzimo di quella cena ebraica. Sì, Gesù era pienamente consapevole di essere venuto nel mondo come la "Parola definitiva del Padre"(Gv 1,14), "Parola" qualitativamente più completa dei dieci comandamenti. La verità del suo essere "Parola definitiva del Padre" doveva essere sancita dal dono gratuito di se stesso per la vera liberazione dell'intera umanità dalla schiavitù dell'egoismo, provocatore di peccati e di morte. In Mc 10,45 Gesù aveva già detto che la verità del suo essere "Parola definitiva del Padre fatta carne" consisteva nel suo voler diventare servo di tutti: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita in riscatto per molti». Infatti l'evangelista Luca, a differenza dell'evangelista Marco, riporta la famosa discussione su "chi doveva essere il più grande tra i dodici" nel contesto di quell'ultima cena. Gesù, dopo aver pronunciato le parole sul pane e sul vino, cioè sul suo corpo «per la nuova alleanza nel suo sangue» (Lc 22,19-20), aveva detto: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27c). E sappiamo che l'evangelista Giovanni, di quella cena, racconta soltanto il gesto della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-13) e il discorso-testamento di commiato (Gv 13,31-17,24). Il "patto di sangue" di Gesù sulla sua diaconia per la salvezza dell'umanità In quei «molti» per i quali Gesù donò tutta la sua vita da servo sofferente, «come agnello condotto al macello» (Is 53,7b), ci siamo tutti noi. Tutti quanti siamo stati riscattati dalla morte e dal peccato una volta per tutte dal "patto di sangue" del dono gratuito dell'amore divino, vissuto da Gesù con la sua morte e risurrezione. In quei «molti» ci sono tutti, buoni e cattivi, giusti e peccatori, fedeli e traditori o rinnegatori perché a quella prima eucaristia parteciparono anche Giuda il "traditore" e Pietro "il rinnegatore". Nella nostra Chiesa cattolica si può incorrere nel rischio di pensare che, per accedere alla comunione eucaristica, bisogna avere lo scrupolo di coscienza di dover confessarsi, per essere "puri", e bisogna essere in "perfetta" situazione di comunione canonica con la comunità cristiana. Dopo l'offerta di Gesù di quell'ultima cena, Giuda realizzò la consegna che covava già nel suo cuore e Pietro rinnegò per tre volte il suo Maestro. Noi oggi, consapevoli delle nostre fragilità e inconsistenze, avendo l'umiltà di presentarci davanti al Cristo che si dona nella celebrazione eucaristica con il suo corpo e il suo sangue nelle specie del pane e del vino, grati del dono di appartenere alla comunità cristiana, vogliamo oggi rendere grazie Padre, rispondendo affermativamente alla domanda postaci attraverso l'autore delle lettera agli Ebrei: «Crediamo che "il sangue di Cristo - il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio - purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché vogliamo servire al Dio vivente" (Eb 9, 14)». Vogliamo cioè far nostro lo stesso stile della diaconia che fu quello di Gesù sacerdote servo, durante la sua vita terrena, sapendo che l'opera di purificazione delle nostre coscienze e delle nostre azioni egoistiche non dipende esclusivamente dalla nostra buona volontà, ma dalla nostra resa all'azione dello Spirito Santo in ciascuno di noi. Il "patto di sangue"della diaconia di Cristo e della nostra diaconia Il "patto di sangue" sancito da Mosé sotto il Sinai era servito per firmare liturgicamente, con il sacrificio di giovenchi, la promessa di obbedienza del solo popolo di Israele ai dieci comandamenti e alle altre norme del libro dell'alleanza. Ma sappiamo bene quanto fu difficile obbedire per i membri di quel popolo, confidando solo sulla loro libera iniziativa. Invece, il "patto di sangue" celebrato inaspettatamente da Gesù nell'ultima cena doveva servire, dopo la sua morte e risurrezione, a firmare liturgicamente la promessa di tutti i battezzati a voler essere nel mondo il Corpo di Cristo, per la realizzazione del regno del Padre nella tessitura di tutte le relazioni, soprattutto quelle tra gli esseri umani, con lo stile della diaconia. Allora noi anche oggi, riceviamo il corpo e sangue di Cristo per essere, uniti nella carità, Corpo di Cristo nel mondo. Guidati dallo Spirito Santo vogliamo tessere relazioni di gratuità e di rispetto, a partire dall'incontro con lo stesso Cristo presente nell'esistenza dei poveri del mondo, come ci vuole ricordare il ministero ordinato dei diaconi nella nostra comunità cristiana. I diaconi ci sono per ricordarci che in tutti i poveri servi sofferenti c'è la presenza viva e vera del Cristo tanto quanto la sua presenza viva e vera la riconosciamo nelle specie consacrate del pane e del vino nelle nostre chiese, mediante l'esercizio del ministero ordinato dei presbiteri. L'adorazione del Santissimo Sacramento fatta in chiesa o in processione in questo giorno del Corpus Domini, diventa autentica se corrisponde alla contemplazione dello stesso Gesù Cristo nella vita dei poveri del mondo. Sia questo il nostro calice di salvezza che vogliamo innalzare al Padre per Cristo, con Cristo e in Cristo in unità con lo Spirito Santo. |