Omelia (13-06-2021) |
diac. Vito Calella |
Dalla «terra» del mistero pasquale di Cristo alla «senape» che sfida i «cedri del Libano» La parabola della buona terra, che dona un abbondante raccolto al contadino seminatore, si trova solamente nel vangelo di Marco (Mc 4, 26-29) ed è seguita dalla parabola del piccolissimo granello di senape (attestata anche in Mt 13,31-32 e in Lc 13,18-19), che diventa una dei più grandi ortaggi, capace di ramificazioni tali da permettere agli uccelli di fare il nido. (Mc 4, 30-32). La parabola della buona terra è composta da tre scene. Nella prima appare «un uomo che getta il seme sul terreno» (4,26). Nella seconda scena, volutamente descritta nei suoi dettagli, il seminatore è completamente passivo, addirittura ignorante. Dopo la consegna dei semi alla terra, lui non fa più niente, non sa nemmeno che cosa avvenga precisamente nella terra che ha ricevuto i semi: «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (4,27). Di fatto, entra in azione la forza vitale e produttiva del terreno buono, e sembra essere questo il messaggio centrale della parabola: «Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (4,28). Nella terza scena appare o strumento della «falce inviata» dal contadino per la mietitura. È un linguaggio strano perché l'attenzione è riposta sul «mandare» lo strumento «falce», come se venisse personificato, mentre il contadino proprietario della falce rimane in secondo piano rispetto all'antico strumento, simbolo della raccolta finale: «quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (4,29). Con la parabola della buona terra Gesù sta parlando del mistero della sua venuta in mezzo a noi. Gesù continuava a «gettare-sprecare» abbondantemente le sue parole accompagnate dalle sue relazioni, anche con effetti miracolosi. Non si preoccupava di scrivere il contenuto dei suoi insegnamenti e nemmeno il ricordo dei suoi incontri e delle sue azioni. La sua era una semina puramente gratuita tutta finalizzata alla «terra». La «terra buona», che accoglie la fatica del seminare e tutti i semi gettati abbondantemente, può rappresentare l'evento della sua morte di croce e della sua risurrezione. Il regno di Dio è prima di tutto la missione di Gesù culminata con la sua consegna radicale alla morte e risurrezione. La sua morte di croce può essere paragonata alla quantità di semi della parola definitiva di Dio da Lui seminata nel corso della sua missione pubblica, ma tutta consegnata all'impotenza totale dei chiodi e al buio radicale del sepolcro. Con i semi gettati nella terra, è come se il contadino consegni tutto se stesso, è come se «si consegnasse completamente alla terra», dovendo accettare la sfida dell'abbandono, della resa fiduciosa ad una «terra» che nasconde i semi e al tempo stesso li feconda e li trasforma in nuova vita. La radicale condivisione del Verbo di Dio con la nostra condizione umana doveva attraversare il buio della vulnerabilità, della fragilità umana, della soglia della morte, dell'apparente fallimento di tutta la sua missione, rappresentato dai semi immersi nel terreno. Ma Gesù ha vissuto il mistero della sua incarnazione sapendo che questa «terra» della sua e nostra condizione umana limitata e mortale è impregnata dalla forza vitale e trasformatrice dell'amore divino, cioè dallo Spirito Santo. La risurrezione dal buio del sepolcro può essere paragonata alla stupefacente azione trasformatrice del terreno stesso che garantisce lo sbocciare di nuove piante, la loro crescita paziente fino alla maturazione del tempo della mietitura. Il terreno, in se stesso, viene contemplato da Gesù e descritto dettagliatamente come simbolo della «radicale consegna» del contadino con i suoi semi e della stupefacente rinnovazione del miracolo della vita, per dire che nulla è perso. La prima parabola, custodita solo dall'evangelista Marco, ci vuole dunque insegnare che, se vogliamo essere custodi e promotori del regno del Padre nella nostra esistenza in questo mondo, innanzitutto siamo invitati ad avere Gesù Cristo morto e risuscitato come centro unificatore di ogni nostro cosciente discernimento sulle scelte da fare e di ogni nostra azione conseguente. L'attenzione posta sullo strumento della mietitura (la falce), e non sul mietitore (il contadino) è un gioco letterario per dire che il tempo della mietitura di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto prima della sua morte e risurrezione, è garantito dall'«invio» dei suoi discepoli. La falce personificata rappresenta gli apostoli con la prima comunità cristiana, chiamati alla mietitura della predicazione apostolica, facendo memoria e mettendo per iscritto, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, tutta la missione vissuta dal Figlio di Dio in mezzo a loro. La falce personificata della mietitura rappresenta oggi anche tutti noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, guidati e animati dai vescovi, presbiteri e diaconi, per rivivere nella nostra storia umana la gioia di essere comunità cristiane, paragonate ad un granellino di senape, destinate a promuovere nel mondo il regno del Padre, paragonato alla pianta della senape, e non più al cedro del Libano. Nella cultura ebraica il cedro del Libano era diventato simbolo di potere ed era immagine di un «regno di Dio» identificato nel popolo di Israele, che un giorno sarebbe diventato un popolo rispettato, avente un regno e un re paragonato agli imperi egiziani e mesopotamici della storia di quel tempo. È questo il senso della prima lettura del profeta Ezechiele. Il popolo in esilio a Babilonia, era come se fosse la punta estrema del grandioso «cedro del Libano» dell'allora impero babilonese. Ezechiele profetizzava il potere di Dio di prendere quel piccolo e insignificante ramoscello del popolo di Israele, allora facente parte, come suddito, del potente regno di Babilonia, per farlo diventare finalmente un rispettoso regno, paragonato ad un nuovo «cedro del Libano», così grande e frondoso, da ospitare all'ombra dei suoi rami gli uccelli, rappresentanti di tutti i popoli pagani. Il Dio di Israele aveva il potere di «umiliare l'albero alto e innalzare l'albero basso, far seccare l'albero verde e far germogliare l'albero secco» (Ez 17,24). L'aspettativa messianica dei dodici apostoli, prima dei tre annunci di Gesù della sua passione, morte e risurrezione, era della venuta del regno di Dio corrispondente ad un regno umano magnifico come il «cedro del Libano». Nella cultura ebraica il «cedro del Libano» era diventato anche simbolo dell'uomo giusto, fedele osservante dei comandamenti, come abbiamo pregato con il salmo responsoriale: «Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio» (Sal 92,13-14). Invece il regno del Padre, inaugurato da Gesù con la sua morte e risurrezione, non ha niente a che vedere con le aspettative messianiche di instaurare una regalità con i criteri di forza, potenza, prosperità, successo, fama, grandezza, tutti concentrati nell'immagine simbolica del grandioso cedro del Libano. Gesù scarta l'immagine esaltante del cedro del Libano e adotta quella nuova di una pianta da orto, la senape, che ha un seme piccolissimo e può diventare una pianta grande e in grado di accogliere gli uccelli del cielo, alternativa alla maestosità del «cedro del Libano». Ogni nostra comunità cristiana ecclesiale, impegnata nel suo piccolo a testimoniare l'unità nella carità, può essere paragonata ad un granellino di «senape». Cosa siamo noi, oggi, di fronte al «cedro del Libano» del sistema finanziario umano che movimenta ogni giorno immensi capitali di denaro e di merci estratte dal pianeta e trasformate dalla tecnologia industriale? Cosa siamo noi oggi, di fronte alla stragrande maggioranza di gente che confida nel «cedro del Libano» del sapere tecnico scientifico, della legge della competizione e del bastare a se stessi? Il granellino di «senape», nella sua piccolezza, ci ricorda che il Cristo risuscitato, nel qui ed ora di questa storia umana, regna già in mezzo a noi nella carne dei poveri. Oggi sembra in crisi quel contesto di cristianità occidentale dei tempi passati, dove la Chiesa istituzionale si proponeva al mondo come il «Regno di Dio in terra», cioè come una sorta di grandioso «cedro del Libano». Più che presentarci come un maestoso «cedro del Libano» noi cristiani siamo chiamati a diventare semplici piante da orto, come una «senape», in grado di praticare l'ospitalità nel segno del rispetto dell'altro, a partire dall'essenza che ci fa diventare pianta: il granellino nella consegna della nostra radicale povertà alla «terra» che per noi, ora, è Gesù morto e risuscitato. La gioia di stare nel Signore Gesù, compartecipando alla sua morte e risurrezione con la fragilità della nostra corporeità vivente, come ci testimonia oggi la confessione dell'apostolo Paolo, ci faccia scoprire che, nel bene e nel male del nostro vivere e agire, da consegnati alla grazia trasformante dello Spirito Santo, saremo ricompensati per essere stati umili ramoscelli della «senape» del Regno del Padre nella nostra storia, che sempre dovrà vedersela con i «cedri del Libano» delle superpotenze multinazionali, finanziarie, politiche e dittatoriali di questo mondo. |