Omelia (23-06-2024)
Paolo De Martino
Dio dorme...forse.

Cosa ci sia storicamente dietro a questo brano del vangelo, non lo possiamo dire.
Forse c'è stata davvero una tempesta. Questo vangelo racconta cosa accade quando c'è da compiere un passaggio nella vita un cambiamento.
Mi sembra di vederlo, Gesù stanco e sfinito dopo una lunga giornata di incontri che sale sulla barca con i suoi discepoli, ordina di andare all'altra riva e si addormenta. C'è pure un cuscino. Marco ricorda che "lo presero con sé, così com'era".
Si cari amici, Gesù di Nazareth va preso così com'è, non come vorremmo che fosse, non quello frutto della nostra religiosità.
"Passiamo all'altra riva" è l'invito di Gesù ad andare verso il nuovo e il cambiamento.
Quando pensiamo di essere finalmente arrivati, il Signore ci spinge a prendere il largo.
La vita è una continua attraversata dove si lasciano delle rive per arrivare ad altri approdi.
E ogni volta si lascia il certo per avventurarsi verso il nuovo e l'incerto.
Molte volte siamo invitati a "Lasciare la folla", cioè quello che fan tutti, il conosciuto per abbracciare il nuovo che non è come vorremmo noi. La novità non è mai come l'avremmo immaginata (altrimenti che novità sarebbe?) eppure vorremmo già conoscerla, gestirla.
Qual era questo cambiamento per i discepoli? Andare in terra pagana. Ogni volta che Gesù invita i suoi discepoli ad andare all'altra riva, accade sempre qualche resistenza.
Mi immagino i discepoli parlottare a voce bassa per non svegliare il loro Rabbì che riposa.
Un bel quadretto tenero che viene interrotto da qualcosa che metterà in crisi la fede dei dodici, che susciterà in loro la domanda che è al centro del vangelo di Marco: "Chi è costui?".
Si scatena "una grande tempesta di vento". L'evangelista si rifà alla storia di Giona.
Il Signore gli aveva detto di andare in terra pagana a predicare la conversione ma lui, non volendo portare Dio ai pagani, aveva preso la direzione opposta scatenando una grande tempesta.
La tempesta, simbolicamente, è la resistenza dei discepoli ad andare in terra pagana.
Se lasciamo spazio al nuovo, al cambiamento, ecco la tempesta!
Ogni passaggio nella vita comporta una tempesta. Le onde sono le paure che emergono in questi momenti: "Sarò in grado di farcela? Riuscirò a gestire questa novità?".
Noi speriamo e sogniamo una vita tranquilla, senza tempeste anche se sappiamo che non è possibile. Cerchiamo con tutte le forze di evitarci le tempeste.
Speriamo che "tutto fili lascio, che tutto vada bene, che non ci siano problemi".
E se imparassimo, invece, ad affrontare le tempeste?
E se imparassimo semplicemente a non affondare, a non affogare?
In che modo? Fidandoci di Lui! Smettiamo di voler controllare tutto, di decidere e di gestire. Seguiamo Lui perché per vie che non conosciamo certamente ci condurrà alla meta.
E Gesù cosa fa nel bel mezzo di una tempesta? Dorme!
Dorme, come se non gli importasse, o perlomeno è questa la sensazione che hanno i discepoli. Dobbiamo ammettere che non di rado abbiamo anche noi la stessa sensazione.
In alcune situazioni Dio sembra assente, sembra che abbia di meglio da fare.
Preghiamo, magari ci rivolgiamo a qualche santo, facciamo qualche novena ma niente.
E allora ce la prendiamo con Lui pensando che se ci fosse interverrebbe, che un Dio che dorme non sappiamo cosa farcene.
Molte persone mi parlano di questo - presunto! - "sonno" di Gesù. Se Lui non risponde quando e come voglio io, allora si è addormentato. Se Lui non risolve i miei pasticci, allora è lontano e distante. Sicuri che ad essere addormentata non sia la nostra fede?
Ecco allora una domanda preziosa: chi dorme? Io o il mio Dio?
Amici, la potenza di Dio non entra "automaticamente" nella nostra vita.
Dio opera nella misura in cui noi glielo concediamo. La fede richiede disponibilità, apertura.
Il problema come sempre è la nostra fede spesso infantile che cerca miracoli piuttosto che la sua presenza.
Vorremmo che Dio ci esentasse dalle tempeste, e invece risponde dandoci tanta forza quanta ne basta per il primo colpo di remo.
Dio sembra dormire e non interviene perché vuole lasciare alle nostre capacità, il compito di affrontare le tempeste della vita. Siamo splendidamente e terribilmente liberi.
Dio ci rende capaci di attraversare il mare in tempesta, dobbiamo solo ricordarci di aver preso sulla barca Gesù così com'è.
E' bellissimo però vedere che i discepoli trovano il coraggio di rimproverare il maestro. Pregano con sincerità. Dovremmo anche noi imparare la franchezza con cui dicono a Gesù quello che sentono dentro di loro.
A ben pensarci fanno una richiesta stranissima: pescatori ed esperti di maree chiedono aiuto ad un falegname di stare aggrappati a Lui per non affondare.
Si sveglia Dio, mica era addormentato: li teneva nel mirino.
Lui non fugge dalle sue responsabilità: si lascia provocare. Non teme la bestemmia, non cerca la vendetta. Sta sulla barca pure Lui, per condividere fino in fondo il nostro destino.
Parla a loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?
Parla al mare come fosse la cosa più normale: "Taci! Calmati!".
Letteralmente è "mettere la museruola; essere imbavagliato".
Amici, se lasciamo libere le voci della paura è la fine.
Se non le imbavagliamo, la paura ci soffocherà e ci farà affondare.
Marco ci sta dicendo che avere fede significa essere padroni dei propri pensieri.
Significa guardarli e dire a quelli negativi: "Smettila, taci".
Perché la mia vita dipende anche dai pensieri che faccio. Non a caso nel vangelo e per i monaci dei primi secoli, i pensieri erano chiamati "demoni".
Essere uomini di fede significa opporre ai pensieri di paura, la fiducia in Gesù di Nazareth e nella vita.
Avere fede significa, nel mezzo della tempesta, sapere che da qualche parte Lui c'è.
Magari dorme, magari non lo sento, ma so che c'è. Per cui lo cerco e lo sveglio perché mi dia tutta quella fiducia di cui ho bisogno per affrontare quella tempesta e quella difficoltà. E quando lo sveglio, quando lo trovo, allora sono salvo.
La bella notizia di questa domenica? Gesù di Nazareth si fa argine alle nostre paure.
Lo troveremo dentro di essa, nel riflesso più profondo delle nostre lacrime.

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