Omelia (20-06-2021)
diac. Vito Calella
L'«Io ci sono» divino anche nel mare burrascoso della vita

Al momento della nostra nascita è come se fossimo stati gettati nel mare dell'esistenza.
Stiamo imparando a percorrere la traversata della vita con tutte le sue fasi di tempesta e di bonaccia, e ci siamo in mezzo, senza essere ancora arrivati all'altra sponda.
Non siamo soli in questa avventura.
L'attenzione oggi è posta sul nostro appartenere all'amore di Cristo ed essere membra attive della «barca» chiamata "comunità cristiana".
Dal giorno dell'inizio della "traversata simbolica" vissuta col nostro battesimo, siamo in questa barca e possiamo fare esperienza di non essere totalmente padroni o signori della nostra esistenza, perché, per puro dono gratuito del Padre, «l'amore del Cristo ci possiede» (2Cor 5,14a).
Il nostro appartenere, imbarcati, all'amore di Cristo, procede di pari passo con tante altre «barche» che ufficialmente non «hanno preso con sé Gesù Cristo» (Mc 4,36), ma in qualche modo sono in relazione con Lui e con la nostra «barca» di "Chiesa inserita nel mondo", perché tutte le esperienze associative promosse da gente di buona volontà, per l'azione dello Spirito Santo, contribuiscono alla realizzazione del Regno del Padre, di cui Gesù Cristo è il Signore.
Tutti siamo già morti con Cristo!
Ascoltando il racconto di Marco, ci sembra ridicolo l'immaginare Gesù a dormire a poppa, appoggiato pacificamente su un cuscino, mentre imperversa una tempesta che infrange le onde impetuose sulla barca, facendovi entrare acqua, col rischio di farla affondare. «Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva» (Mc 4,37-38a). È infantile leggere il testo come se fosse un racconto di cronaca.
La narrazione del sonno profondo di Gesù in quella barca sbattuta dalle onde è un preannuncio simbolico della sua morte di croce con deposizione nel sepolcro, che l'apostolo Paolo ci ha invece detto esplicitamente: «noi sappiamo bene che uno[Gesù] è morto per tutti» (2Cor 5,14b).
Quando dunque ci immedesimiamo negli apostoli che si agitano nella barca, mentre Gesù dorme pacificamente, siamo invitati a considerare tutto il nostro lottare quotidiano per mantenerci faticosamente a galla.
Riconosciamo la difficoltà di sentirci illuminati e sostenuti dall'evento della morte e risurrezione di Gesù, già avvenuta una volta per sempre. Perché ci agitiamo così tanto a voler salvare la nostra vita e la barca della nostra comunità cristiana confidando unicamente nelle nostre forze? Con l'apostolo Paolo vorremmo dire che: «"tutti sono morti" (2Cor 5, 14c) con Cristo! Tutti siamo morti con Lui».
Continuiamo a remare faticosamente e lottiamo nel mare di questa storia umana, senza essere consapevoli di cosa significhi che tutti siamo morti con Cristo Gesù nella sua morte di croce.
Potremmo iniziare a redigere un'interminabile lista di esperienze di morte che sperimentiamo mentre ancora siamo fisicamente vivi nella traversata della nostra esistenza terrena. Eccola: depressioni che ci inchiodano in una routine difficile da cambiare; fatiche a fare i conti con la vulnerabilità della nostra condizione umana corporale, psicologica e spirituale; difficoltà a ricucire strappi di relazioni umane un tempo significative; sforzi dolorosi di mantenerci in equilibrio tra le tante avversità e imprevisti della vita; perdite o lutti provocati anche da una nostra giusta scelta; percezione di impotenza di fronte a certi vizi e manie che ci trasciniamo da anni, senza riuscire a liberarcene; sofferenza generata dalla nostra sensibilità verso le ingiustizie sociali, le guerre, i disastri ecologici; rivolta interiore contro la corruzione e l'idolatria del denaro che arricchiscono pochi e calpestano la dignità umana di molti; chi più ne ha ne metta.
Di fronte alla tanta fatica del vivere quotidiano ci può irritare il sonno stranissimo di Gesù a poppa della barca, adagiato pacificamente ad un cuscino. «Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t'importa che siamo perduti?"» (Mc 4,38b). Sembra che quel "sonno" sia segno di indifferenza divina di fronte a tutte le nostre agitazioni.
Nel sonno della morte di Gesù contempliamo l'ospitalità in Dio di tutte le nostre fatiche.
Invece quel "sonno pacifico di Gesù" in mezzo all'agitatissima tempesta sta ad indicare l'ospitalità di ogni nostra esperienza di perdita o di lutto nel cuore del Padre unito al Figlio nello Spirito Santo, avvenuta una volta per tutte quando il corpo crocifisso di Gesù fu deposto nel sepolcro, quando già era stata compiuta sia l'offerta totale del suo corpo, sia il dono gratuito del suo Spirito per la nostra salvezza e per la liberazione dai nostri peccati e da ogni tipo di schiavitù.
Gesù crocifisso e adagiato sul cuscino della fredda pietra del sepolcro, nel sonno della sua morte, «è morto per tutti [noi], perché non viviamo più per noi stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi» (2Cor 5,15).
Cambiamo di sguardo su ciò che ci succede perché c'è in noi la gratuità dell'amore divino.
Contemplare l'ospitalità in Dio di ogni nostra esperienza di lutto esistenziale, grazie alla morte e sepoltura del Figlio unito al Padre nello Spirito Santo, significa cambiare il nostro sguardo verso ciò che sta avvenendo nella traversata della nostra esistenza quotidiana e scoprire stupiti l'«Io ci sono» di Dio anche nel male della tempesta di una malattia, di una depressione, di una situazione irreparabile di divisione e separazione provocata dall'egoismo umano, di un vizio o di una inconsistenza psicologica limitante e schiavizzante. La parola di Dio, per mezzo dell'apostolo Paolo ci parla di sguardo diverso: «Non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,16a).
Gesù nella sua condizione umana si abbandonò all'esperienza della morte di croce e della sepoltura. Lo fece senza confidare nelle sue forze. Si rese fiduciosamente alla comunione mai infranta con il Padre, cioè si abbandonò a quella forza unitiva e vitale dello Spirito Santo che sempre lo aveva guidato e sostenuto nella traversata della sua vita terrena. Gesù intuiva che l'amore unitivo dello Spirito Santo, per volere del Padre, poteva trasformare quel fallimento, quello scandalo e quella stoltezza della croce in un evento di salvezza per tutta la storia dell'umanità. La gratuità dell'amore divino aveva il potere di trasformare le "acque agitate" della crocifissione in "acque calme" della risurrezione.
La risurrezione di Gesù ci fa cambiare il nostro sguardo verso le fatiche della vita.
Solo il nostro sostare e meditare il mistero della morte e risurrezione di Gesù ci dà la speranza di vedere trasformate le acque agitate dei nostri lutti in acque tranquille, cioè in nuove opportunità per una nostra crescita umana, psicologica e spirituale.
Il nostro credere in Cristo risuscitato provoca uno sguardo qualitativamente diverso sulla "tempesta" della sua morte di croce: «Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16b).
Cambia anche lo sguardo sulla nostra vita agitata.
Grazie alla presenza potente dell'amore di Cristo che ci è stata donata gratuitamente e ci possiede, a partire dalla nostra povertà, dai nostri lutti, anche dai nostri errori, in comunione con i nostri fratelli e sorelle in Cristo, possiamo diventare creature nuove, perché solo l'Amore divino risana, perdona, scrive diritto sulle linee storte della nostra traversata di vita, «tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5, 17).
Perché avere paura e sottovalutare la forza della fede?
Spesso tendiamo a trascinarci nella vita.
Pensiamo che non possono capitare cambiamenti radicali sia nella nostra vita, sia nell'umanità insieme a tutte le creature naturali. Siamo tentati a pensare che tutto sia destinato ad un futuro disastroso, come lo erano le acque impetuose e incontrollabili del mare che agitava la barca dei discepoli di Gesù..
Il Cristo risuscitato oggi ci rivolge quelle stesse domande da lui poste ai suoi discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
Il Dio Creatore, capace di dare un limite all'infrangere orgoglioso e prepotente delle onde del mare (cf. Gb 38,1.8-11), è sicuramente il nostro liberatore. Perché non confidiamo ancora nella forza trasformatrice del dono già disponibile della parola del Cristo? Gesù disse: «Taci, calmati! Il vento cessò e ci fu grande bonaccia» (Mc 4,39b).
Lasciamoci guidare dal desiderio di conoscere e amare Gesù, mantenendo viva in noi la disponibilità a rispondere alla domanda: «Chi è costui, di fronte all'immensità del creato?»
Facciamo spazio in noi alla gratitudine riconoscendo che «il suo amore è per sempre» (Sal 106,1b).
«Nell'angustia gridiamo al Signore, ed egli ci farà uscire dalle nostre angosce.
Egli può ricondurre alla calma la tempesta [in cui ci siamo imbattuti]. Al vedere la bonaccia [dopo ogni fase tempestosa della nostra vita] irradiamo la gioia di sentirci condotti solo da Lui al sospirato porto sicuro».