Non c'è seme senza campo
Gesù racconta la storia del regno di Dio.
È la storia di un piccolo seme gettato nel terreno, che germoglia e dà vita a una pianta, per divenire poi nutrimento per chi ne gode i frutti oppure dimora per gli uccelli che pongono in essa il nido. È storia di vita ordinaria, storia di lavoratori e allo stesso tempo storia di gratuità. Storia, quindi, di responsabilità operosa e di stupore per il dono inaspettato, storia di sentimenti contrastanti che si intrecciano, perché fanno parte della nostra verità di uomini.
Davvero sorprende, questo mistero di vita.
È necessario che vi sia qualcuno che semina, qualcuno che crede nella potenza della vita stessa, qualcuno che dia fiducia a un germe di grandezza insignificante, che peraltro deve scomparire e restare nascosto per poter divenire se stesso. E la stessa operosa fiducia va comunque riposta anche nel terreno, perché il seme non può germogliare e crescere senza le sostanze racchiuse nel campo che lo accoglie.
Dunque la meraviglia racchiude la potenza del seme, ma anche le risorse sorprendenti del terreno.
Fuor di metafora, nelle parabole di Gesù ci viene svelato il prodigio di un incontro, di una penetrazione reciproca. Da un lato, quel seme che è la Parola, il Verbo fatto carne, pronunciato da sempre e instancabilmente dal nostro Agricoltore celeste, il Padre del Cielo e della Terra. Una Parola efficace, che agisce anche se non ce ne accorgiamo, che trasforma un solco in un giardino, che trasfigura pazientemente ed efficacemente le zolle in cibo per l'uomo.
E dall'altro lato, il campo che è il mondo...
...il terreno che è l'uomo, ogni uomo e ogni donna, creature predilette da Dio, fatti in modo da essere capaci di accogliere e alimentare il seme in modo che dia frutto. Proprio così: non avrebbe senso la Parola senza un cuore in grado di accoglierla, come non può esistere l'amore se non c'è qualcuno bisognoso di riceverlo e abilitato a farlo.
Gesù non ci manifesta l'azione di un Dio tanto onnipotente da preferire una fecondazione artificiale e solitaria al rischio umile di una relazione, che deve divenire generatrice di vita, ma lo può soltanto nell'adesione di entrambi i protagonisti al rapporto. Così il seme che viene sparso dalla mano celeste ha bisogno del campo, quell'umano troppe volte disprezzato e denigrato da contadini poco propensi a stimare la bellezza del dono ricevuto.
Le parabole ci aiutano a scoprire che l'opera di Dio è inarrestabile...
...he nella storia dell'umanità la Grazia agisce in modalità che ci sfuggono, che la potenza della Vita donata è efficace a prescindere dai nostri meriti e dai nostri calcoli. Ma ci aiutano anche a restituire alla nostra natura mortale la dignità che le spetta, perché l'uomo è se stesso proprio in quanto limitato e fragile, ed è la nostra debolezza il luogo dove può depositarsi la semina.
Guai a considerare i confini della nostra persona come un male, come una disgrazia che ci allontana da Dio: sarebbe una sottile e pericolosa concessione alla superbia, come se volessimo in fondo essere campo che genera da solo, senza bisogno della fecondazione da parte dello Sposo. Così a volte viviamo la vita cristiana, nascondendoci dietro false lamentazioni di piccolezza e di debolezza, e insinuando invece l'ansia presuntuosa di essere noi perfetti, e quindi non solo alla pari di Dio, ma autonomi e autoreferenziali.
La metafora della seminagione descrive piuttosto la verità, di Dio e dell'uomo,
che è meravigliosamente e inevitabilmente realtà di relazione, nella quale l'uno non può vivere l'amore generativo senza l'altro. E se Dio ha voluto autolimitarsi per potersi donare a noi nel mistero del seme che morendo dà vita, perché non dovremmo noi accettare che le nostre debolezze e i nostri limiti sono in fondo il vero spazio in cui può insinuarsi la Parola che feconda e ci rende dimora e pane per chiunque?
Con questo spirito, nemmeno la falce farà più paura. Sarà infatti solo strumento - sebbene doloroso - in mano all'Agricoltore, che, agendo in noi, è preludio dell'unione definitiva per una vita finalmente senza confini.