Omelia (27-06-2021)
mons. Roberto Brunelli
Marcello Candia: da ricco che era...

Raffinato esponente dell'alta società milanese, tre lauree, proprietario e direttore di un'affermata industria, a 49 anni Marcello Candia (1916-1983) decise di seguire l'invito rivoltogli vent'anni prima da un missionario: vendette l'azienda e si trasferì nella trascurata regione alla foce del Rio delle Amazzoni, dove realizzò un lebbrosario. Ogni tanto tornava in Italia, dai suoi conoscenti ed ex colleghi, a chiedere altri soldi con cui fondò sempre in Brasile altre tredici opere, tra ospedali, centri di accoglienza per disabili, una scuola per infermieri, e persino un convento.
Nel 1992 il noto giornalista Giorgio Torelli ne scrisse la biografia, intitolandola "Da ricco che era". L'espressione è tratta dalla seconda lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi (8,9), ed è compresa nel brano che costituisce la seconda lettura di oggi: l'apostolo invita i cristiani di Corinto a soccorrere i fratelli di Gerusalemme, al momento bisognosi di aiuto. "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri", spiega, "ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza". E ne dà la motivazione: prendete esempio dal "Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà".
Il Figlio di Dio si è fatto povero, costringendo la sua divinità entro i limiti di un uomo; è vissuto da povero, ma fu tanto generoso da dare la sua stessa vita: un gesto con cui ha arricchito spiritualmente innumerevoli persone. Da ricco che era, Gesù si è fatto povero per sollevare molti. Da ricco che era, Marcello Candia si è fatto povero per aiutare i diseredati. Da ricchi che erano (di soldi, d'ingegno, di prospettive, di capacità, di potere) non si contano i cristiani che nei secoli hanno imitato il loro Signore. La storia si ripete: nei suoi errori ma anche, pur se spesso sottaciute, nelle sue opere di bene.
Il vangelo (Marco 5,21-43) narra due "opere di bene" compiute da Gesù in un villaggio sulle rive del lago: la guarigione di "una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni", e la risurrezione della dodicenne figlia di Giàiro, un capo della locale sinagoga. Entrambi i miracoli sono basati sulla fede dei richiedenti: "Figlia, la tua fede ti ha salvata", dice Gesù alla donna; "Non temere, soltanto abbi fede", dice al disperato padre della fanciulla, andato dal maestro a chiederne la guarigione e poi informato che, prima di ottenerla, la fanciulla era morta.
La fede dei due si presta a qualche considerazione. Quella della donna si manifesta nel fatto che ella lo avvicina mentre è attorniato dalla folla; è convinta di poter guarire anche solo toccando il suo mantello, ed è quello che le riesce di fare, standogli alle spalle. La sua è una fede primitiva, quasi superstiziosa, direbbero i tanti censori delle espressioni popolari della devozione, quelli che vorrebbero abolire le reliquie, le processioni, le candele accese davanti alle immagini dei santi eccetera. Evidentemente Gesù non è di questo parere, ben sapendo che le persone non sono tutte uguali, e ciascuna si rivolge a Dio a modo proprio, secondo la propria personalità, secondo la formazione ricevuta.
L'altro caso presenta un miracolo avvenuto non per la fede della beneficiaria, ma di un'altra persona, nel caso il padre. Basterebbe questo episodio a motivare la preghiera che si fa per gli altri: quella pubblica (in ogni Messa, ad esempio, si prega per il papa, il vescovo, l'intero popolo cristiano e i defunti; le singole celebrazioni aggiungono poi di volta in volta intenzioni particolari) e quella privata (prima di chiedere per sé, nella preghiera personale si dovrebbe anzitutto lodare Dio e non dimenticare quanti riteniamo essere bisognosi dell'aiuto divino). Pregare per gli altri: è una forma alta, e possibile a tutti, della carità.