Omelia (27-06-2021)
diac. Vito Calella
Incontrati con Cristo e torna la vita

Il racconto della guarigione della donna «che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (Mc 5,25-34), viene inserito nel mezzo della trama del risuscitamento della figlia di Giairo, di «dodici anni» (Mc 5,22-24. 35-43).
Gesù divenne l'unica ancora salvezza sia per il rispettato Giairo, capo della sinagoga, sia per quella poverissima donna, di cui non conosciamo il nome: «Giairo, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: "La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva"» (Mc 5,22-23); la donna diceva tra sé, in segreto, accalcata tra la folla: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata» (Mc 5, 28).
Si intrecciano due argomenti: quello della "morte" e quello delle "motivazioni" che spingono Giairo e la donna a incontrare Gesù supplicando la salvezza.
Nella prima trama del racconto la figlia di Giairo è descritta in serio pericolo di morte.
Il fine vita spaventa tutti, specie quando si tratta di una giovane esistenza minacciata e stroncata improvvisamente da una malattia o da una sciagura. Giairo era il papà di una ragazza ormai giunta al fiore della sua giovinezza, pronta da essere data in sposa per la cultura dell'epoca, ma gravemente malata. Cercò l'aiuto di Gesù affinché sua figlia fosse sottratta dal pericolo imminente di morire troppo prematuramente. Di fronte alla situazione drammatica della figlia, Giairo era spinto ad incontrare Gesù supplicandogli la salvezza-guarigione della figlia, per la fama sui suoi poteri taumaturgici.
Nella seconda trama del racconto la donna è descritta in una condizione miserabile.
La morte fisica (pensando alla figlia di Giairo), può essere anticipata da una serie di altri tipi di "morte", di cui la donna, vittima di emorragie continue, è figura simbolica. Le continue perdite di sangue, secondo la cultura e le leggi sacrali del tempo, rendevano impura lei e chiunque la toccasse. Quella donna era fisicamente viva, ma psicologicamente uccisa dall'isolamento, dall'esclusione sociale e religiosa, dall'impossibilità di contrarre un matrimonio ed avere figli. Per di più., era stata strozzata economicamente dai medici, consultati invano per ottenere la sospirata cura. L'essere presentata come una donna anonima, emersa tra la folla che si accalcava attorno a Gesù, ce la fa immaginare come figura degli impoveriti, senza valore e con la dignità umana ridotta a zero. Per quale motivo la donna incontrò Gesù? Ella vedeva in Lui un mago con poteri presenti nelle sue stesse vesti.
Quelle di Giairo e della donna sono due tipi di esperienze di fede che possono aiutarci a valutare la nostra personale condizione di credenti, anche se la loro immagine di Gesù può sembrare incompleta.
Ciò che conta davvero è la relazione sincera tra Giairo e Gesù e tra la donna e Gesù.
"Aver fede in Gesù" significa per noi oggi crederlo vivo e presente in noi e in mezzo a noi quando preghiamo con la parola di Dio e, nella preghiera, presentiamo sinceramente a lui la nostra condizione esistenziale, così come fecero Giairo e la donna.
Ascoltando attentamente il Vangelo scopriamo che la giornata di Gesù fu determinata dagli incontri con Giairo e con la donna. In questa duplice trama, contempliamo le sue scelte dipendenti da questi due incontri imprevisti, che gli fanno cambiare programma e per i quali dedica tutta la sua attenzione, rispetto alla folla. La risposta di Gesù alla prostrazione e alla supplica di Giairo è immediata: «Andò con lui» (Mc 5,24a). Nonostante la fretta di arrivare alla casa di Giairo, perché il tempo poteva determinare la sopravvivenza o il decesso della ragazza ammalata, Gesù si prendeva tutto il tempo per cercare chi lo aveva «toccato» e poi dialogare con quella donna guarita dalla forza che aveva sentito uscire da lui. Pensando alla folla che si accalcava attorno a Gesù ci viene da chiederci: «Siamo tanti in questo mondo; il Cristo risuscitato come può prendersi cura di ciascuno di noi e interessarsi particolarmente della nostra condizione esistenziale di vita?». Eppure, se agì così con Giairo e con la donna, fa lo stesso con ciascuno di noi oggi, quando lo cerchiamo con la sincerità del nostro cuore, consapevoli del nostro bisogno di aggrapparci a Lui, nostra unica ancora di salvezza.
Immedesimandoci in Giairo ci interroghiamo su cosa possa significare «vedere» in Gesù il Signore della vita che ci fa guardare alla soglia della nostra morte fisica e di quella dei nostri cari con la certezza dell'immortalità.
L'unica certezza del futuro di ogni essere vivente è la morte fisica. Prendiamo atto che la cultura occidentale dominante l'ha resa un tabù per tutti noi. Siamo indotti a sdrammatizzare questo evento o addirittura a rimuoverlo forzatamente dal pensiero, scegliendo il divertimento appagante i nostri bisogni immediati come opzione fondamentale del vivere quotidiano. Eppure la morte può sopraggiungere inesorabilmente ad ogni istante e stroncare improvvisamente sia la nostra esistenza piena di progetti, sia quella dei nostri cari più prossimi.
Il miracolo del risuscitamento della figlia di Giairo è un annuncio anticipato della vittoria sulla morte operata dal Padre, con la forza dello Spirito Santo, su Gesù morto, crocifisso e deposto nella fredda pietra del sepolcro. Il destino di Gesù non fu la corruzione del suo corpo nel buio del sepolcro, ma l'immortalità della sua corporeità vivente, con tutta la sua natura umana, in comunione con il Padre grazie al potere unitivo e vivificante dello Spirito Santo. Il Cristo risuscitato realizzava una volta per tutte ciò che lo Spirito Santo aveva ispirato allo scrittore sacro del libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c'è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura» (Sap 1,13-15. 2,23). La nostra morte fisica e quella dei nostri cari non è l'epilogo della nostra esistenza, ma l'inizio di una vita di eterna comunione con il Padre nello Spirito Santo per la parola di Cristo risuscitato che dirà anche al nostro corpo mortale: «"Cum", alzati». Questa nostra personale esperienza di comunione eterna in Dio sarà anche la gioia della comunione eterna con tutti i credenti in Cristo e in particolare con le persone con cui abbiamo intessuto le nostre relazioni più significative durante il nostro pellegrinaggio in questa vita mortale. L'eternità della comunione dopo la morte fisica si prepara in questa vita terrena affidandoci non tanto alle nostre forze umane, ma alla forza unitiva e liberatrice dello Spirito Santo che proviene dal Padre per mezzo del Figlio risuscitato.
Immedesimandoci in quella donna ci interroghiamo su cosa possa significare «toccare» il lembo del mantello di Gesù, e sentire l'immediata guarigione operata da una forza uscita dalla sua corporeità vivente.
Gesù era guidato dallo Spirito Santo durante tutta la sua missione pubblica. La forza che usciva dal lembo del suo mantello era la forza della gratuità dell'amore divino in grado di sanare immediatamente, nel qui ed ora dell'esistenza terrena, tutte le altre forme di "morte" che abbiamo sopra descritte, concentrate nella malattia della perdita di sangue di quella povera donna senza nome. Per noi il «toccare il manto del mantello di Gesù» significa oggi "fare esperienza concreta del potere dello Spirito Santo nella nostra condizione di radicale povertà". Nella nostra preghiera personale, presentiamoci di fronte al Cristo risuscitato, confidando nel potere dello Spirito Santo, che Lui ci ha donato gratuitamente per essere liberati da ogni "emorragia" di vita di relazione vera e rispettosa. Presentiamoci a Lui dicendogli senza paura «tutta la verità» su noi stessi, sulle nostre sofferenze, impotenze, esclusioni, isolamenti di cui siamo vittime, come fece umilmente quella donna. Nella donna contempliamo l'esperienza della fede che richiede il coraggio di riconoscere la radicale povertà della propria condizione umana, andare controcorrente, superando tutte le barriere imposte dalle leggi culturali e religiose che ci possono etichettare e giudicare come persone impure, inutili, fallite, solitarie. Siamo chiamati, illuminati dall'esperienza di quella donna, a realizzare il con-tatto tra l'estrema povertà della nostra condizione umana e la forza salvifica, vivificante, unitiva, liberante dello Spirito Santo, che oggi per noi scaturisce dalla corporeità eternamente vivente di Gesù risuscitato.
È questo il segreto che ci permette di vivere bene il "frattempo" della nostra esistenza terrena, prima di oltrepassare la soglia della nostra morte fisica e sperimentare in pienezza quella comunione recuperata, già possibile nel qui ed ora del nostro vivere quotidiano, a partire dalla consegna della nostra povertà in Cristo Signore, il quale, «da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diveniamo ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).