Omelia (25-07-2021)
don Alberto Brignoli
Nelle nostre mani

Quando ero in missione all'estero, nei paesi in via di sviluppo, ci avevano insegnato - ma era anche abbastanza ovvio rendersene conto di persona - che non era sufficiente evangelizzare annunciando la Parola di Dio e dispensando sacramenti a ritta e a manca per fare il maggior numero possibile di cristiani (come del resto è stato per molti secoli, nella Chiesa): occorreva accompagnare l'annuncio della Parola, l'insegnamento del Vangelo e la celebrazione dei Sacramenti a un'azione di promozione umana integrale, fatta di attenzione all'educazione e alla formazione, fatta di interventi socio-sanitari, fatta (laddove la necessità era più impellente) di bocche da sfamare, non attraverso il superfluo e il dannoso con cui ci nutriamo qui, ma con il necessario per vivere e vivere in salute. Cibo e salute vanno di pari passo, questo si sa bene, e per di più in maniera biunivoca: la salute delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo ci rimette la salute e la vita per la mancanza di cibo, e pure noi per il cibo ci rimettiamo la vita... ma a causa di una quantità eccessiva. È l'annoso barcamenarsi del mondo tra il "mangiare per vivere" e il "vivere per mangiare"! Ad ogni modo, speriamo che il Signore Gesù dimostri verso la nostra cupidigia e il nostro "vivere per mangiare" la stessa compassione che ebbe domenica scorsa per le "pecore senza pastore", alle quali si mise ad insegnare molte cose, e alle quali oggi mostra un altro aspetto della compassione, quello di chi sa che ogni annuncio di salvezza fatto a gente che resta forzatamente a stomaco vuoto, non produce alcun effetto. È così importante il gesto della moltiplicazione dei pani e dei pesci per i cinquemila, che la Liturgia ha pensato di affidarne la narrazione non al Vangelo di Marco (anch'essa molto significativa, e conseguenza diretta del Vangelo di domenica scorsa), ma al testo corrispondente del Vangelo di Giovanni, che considera questo gesto come l'Istituzione dell'Eucarestia (da lui non narrata nell'Ultima Cena), e che poi - in questo capitolo 6 della sua opera - porterà avanti il celeberrimo discorso sul Pane di Vita che ci accompagnerà lungo gran parte delle domeniche del mese di agosto.
Che cos'ha di particolare la narrazione di Giovanni, oltre ad essere ricca dei molti e simbolici particolari che sempre contraddistinguono il Quarto Vangelo?
Colpisce soprattutto il dialogo tra Gesù e i Dodici collocato al centro della narrazione di oggi, la cui domanda principale è anticipata nella prima lettura, dove Eliseo e il suo servo dialogano sullo stesso concetto: "Come posso dare da mangiare a cento persone con venti pani?"; molto simile alla domanda di Andrea, che dopo la perplessità di Filippo su dove poter comprare pane per tanta gente, si rivolge al Maestro in termini analoghi: "C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?". Nulla da eccepire, riguardo alle due domande: da un punto di vista pratico, umano, di pura economia domestica, non ci vuole molto a capire che con quel poco che hanno a disposizione non possono certo sfamare tante persone... Il Dio di Gesù Cristo, però, non solo è il Dio dell'impossibile, ma è anche il Dio che non ragiona con la mentalità economica o del profitto...
Secondo questa mentalità, infatti, si può avere solo ciò che si compra; e si compra solo quando si ha merce di scambio a disposizione, ovvero denaro. Filippo aveva già calcolato che nemmeno con tre stipendi mensili di un operaio (circa duecento denari) si sarebbe potuta sfamare quella gente. "Occorrono più soldi, e noi non li abbiamo": questo il succo del discorso dei Dodici. Che, in fondo, è anche la nostra logica, in tutte le cose che facciamo, anche nella Chiesa, anche nelle nostre comunità parrocchiali: le cose si fanno se si hanno i soldi, le cose si mettono a posto se l'economia ce lo consente, possiamo offrire un servizio alle persone solo se abbiamo le risorse per farlo. E spesso capita anche peggio, quando dietro al discorso dell'economia, del risparmio, del potere che viene dai soldi, ci sta il profitto, l'interesse personale, il desiderio di accumulare per sé senza pensare agli altri.
Se pensiamo alla vicenda del servo di Eliseo, anch'egli guidato dalla logica del calcolo, ci accorgiamo come sia devastante la mentalità che si portava dietro; qualche versetto dopo, infatti, rincorre Naamàn, il funzionario del re di Siria guarito dalla lebbra, che si era rivolto al profeta riempiendolo di oro e denaro pur di avere la guarigione. Eliseo lo guarisce, rifiutando però quei doni: non così il suo servo, che lo rincorre per chiedere a Naamàn il compenso rifiutato dal suo padrone Eliseo, il quale, accortosi, lo castiga colpendo lui con la lebbra.
Perché quando la logica del denaro entra nelle logiche della religione, è peggio di una lebbra che consuma e corrode. Quando invece nella Chiesa e in ogni comunità credente entra la logica della gratuità e della condivisione, si fanno miracoli. Il denaro è capace di fare molte cose, ma porta alla cupidigia e difficilmente crea condivisione e solidarietà. Il poco di ognuno, condiviso fra tutti, può fare miracoli, come ci ha dimostrato il Vangelo: e se non risolve i problemi di tutti, sicuramente realizza il più grande miracolo, quello della solidarietà, capace di renderci - per dirla con le parole di Paolo nella seconda lettura - "un solo corpo, un solo spirito".
Certo, occorre l'umiltà di riconoscere che i miracoli non li facciamo noi, nemmeno con la più mirabolante delle opere di misericordia; e anche una volta riconosciuta la priorità di Dio nella nostra vita, dobbiamo evitare il pericolo di vederlo solo come il distributore di grazie, l'operatore di prodigi, il profeta che deve venire nel mondo e che ci viene comodo proclamare nostro re perché almeno lui risolve tutti i nostri problemi. Se proviamo a vederlo così, lui fugge da noi e si ritira, da solo, là dove non possiamo raggiungerlo e dove non possiamo strumentalizzarlo.
Perché prendere Gesù come quello che risolve tutti i nostri problemi con un miracolo, è comodo; ma se lui rifugge da questa idea è perché vuole che comprendiamo che il destino di un'umanità più giusta, più solidale e meno affamata, sta nelle nostre mani. Povere, misere, ma pur sempre le nostre mani.