Omelia (05-09-2021) |
don Alberto Brignoli |
Innanzitutto, discepoli! Con la voglia che c'è oggi di strumentalizzare qualsiasi gesto o qualsiasi affermazione di persone con autorità o anche solo con visibilità pubblica per giustificare le proprie teorie e le proprie convinzioni, anche il brano di Vangelo di oggi potrebbe essere utilizzato per rafforzare le proprie convinzioni circa la bontà o meno delle scelte fatte relativamente alla lotta alla pandemia che catalizza i nostri pensieri da ormai quasi due anni. Questo Gesù che guarisce il sordomuto toccando la sua lingua con la saliva potrebbe essere preso dai "no vax" come paladino della libertà dei comportamenti, se non addirittura come vera medicina alla malattia, alternativa al vaccino; e dalla controparte, Gesù verrebbe tacciato di comportamento irresponsabile, rischiando addirittura una denuncia e l'arresto per il reato di pandemia colposa. Per fortuna, lungi da tutto questo almeno il Vangelo, anche se troppo spesso, in questo periodo, anche all'interno della Chiesa si sono sentite affermazioni a dir poco fuori luogo che imputavano la pandemia e la sua diffusione a un castigo di origine divina, per porre rimedio al quale le uniche armi erano la preghiera, la penitenza e la conversione... sarebbe il caso, ogni tanto, di ricordarci di "rendere a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio". Vedere il Gesù guaritore come un semplice taumaturgo che cura i mali di un'umanità resa inferma dal peccato è quantomeno limitativo della grandezza del messaggio del Vangelo. Dietro una guarigione compiuta da Gesù, infatti, c'è sempre molto di più di quello che pare come una semplice sanazione fisica: e il brano di Vangelo di oggi è davvero emblematico di questo. Gesù, infatti, guarisce un sordomuto: ma non è una guarigione come molte altre. Il fatto stesso che nessuno degli altri quattro evangelisti riporti questo miracolo, ci dice la sua singolarità, da abbinare proprio al vangelo di Marco, che dei quattro è il vangelo del discepolo per eccellenza, il vangelo del catecumeno, il testo utilizzato fin dai tempi della Chiesa nascente per far conoscere la figura di Gesù agli adulti che iniziavano il cammino di fede in preparazione al battesimo. Solo Marco, "il vangelo del discepolo", riporta questo miracolo, e lo fa con dovizia di particolari perché questo miracolo non è solamente un segno prodigioso, come tanti altri compiuti da Gesù: vuol essere un insegnamento per chi sta diventando suo discepolo. Cosa ci sta, allora, dietro alla narrazione di questo miracolo? Che cosa chiede Gesù ai discepoli di allora e di oggi - a noi - con il gesto da lui compiuto sul sordomuto? Già le indicazioni geografiche presenti all'inizio del brano ci fanno capire qualcosa: Gesù opera questo miracolo in terra straniera, in pieno territorio della Decapoli. E ciò che più colpisce è che vi arriva quasi per caso, compiendo un itinerario anomalo: si trova a Tiro e Sidone, cioè già in territorio straniero, al nord della Palestina, e per scendere verso il mare della Galilea passa dalla Decapoli; e ci va di proposito, compiendo un giro larghissimo per arrivarci, senza prendere la strada più diretta. Ed è lì che incontra questo sordomuto che - vedremo - è simbolo del discepolo che deve imparare a seguire il Signore. Significa, semplicemente, che per incontrare il Signore, per mettersi alla sua scuola, occorre innanzitutto imparare ad uscire dai nostri schemi, e seguire il Signore là dove lui vuole e per le vie che lui vuole, anche se non paiono le più ovvie e le più sicure, anche se si tratta di passare da una terra straniera a un'altra, ovvero "di tenda in tenda", di precarietà in precarietà, perché non sono le nostre sicurezze e le nostre identità territoriali, linguistiche o culturali a donarci la salvezza, ma la fiducia in lui. Egli è venuto a salvare noi, suoi discepoli, dalla nostra sordità e, di conseguenza, dalla nostra incapacità a parlare di lui. Del resto, lo sappiamo: chi è sordo dalla nascita, difficilmente nasce abile a parlare se non dopo aver acquisito la capacità di ascoltare quei suoni che poi dovrà riprodurre. Vuol dire che non si può essere annunciatori della Parola se, prima, questa Parola non la si ascolta; non si può essere "apostoli" prima di essere "discepoli". E oggi, purtroppo, anche nella Chiesa, troppi si sentono apostoli e maestri dimenticandosi, innanzitutto, della necessità di essere discepoli; troppi parlano senza mai ascoltare; troppi sentenziano senza prima mettersi in ascolto, in discernimento, in atteggiamento di comprensione rispetto a ciò che vedono e sentono. Ormai l'abbiamo capito: questo sordomuto non è uno dei tanti miracolati del Vangelo, e principalmente non ci troviamo di fronte a un malato o, come diremmo oggi, una persona diversamente abile di cui avere compassione. Egli è il discepolo per il quale è annunciato e scritto il Vangelo; non è uno straniero malato da salvare perché in situazione di indigenza, bensì un figlio d'Israele, come i dodici, come gli altri discepoli. A lui, infatti, Gesù si rivolge in aramaico dicendogli "Apriti", cambiando lingua rispetto al greco del Vangelo, perché qui bisogna parlare la lingua ancestrale, la lingua di quelli che sin dall'inizio hanno seguito Gesù, la lingua della sua comunità. Gesù parla la nostra lingua materna per dirci che il suo messaggio di salvezza è sì un messaggio universale, ma non è qualcosa di generico che riguarda, come spesso pensiamo, gli altri, i non credenti, gli stranieri, quelli che devono convertirsi al cristianesimo perché ancora non hanno conosciuto Cristo. La sua Parola è rivolta a noi, perché chi deve convertirsi siamo noi, chi deve aprirsi all'ascolto della sua Parola siamo noi, prima di tutto; noi vicini, noi che parliamo la sua lingua, noi che ci sentiamo già a posto perché siamo da sempre con lui, perché andiamo a messa tutte le domeniche, perché siamo buoni cristiani e diamo per scontato di conoscere già tutto di lui e di essere da sempre in grado di annunciare la sua Parola. Invece, non è così: è a noi che Gesù oggi dice "Effatà", "Apriti". È a noi che chiede di aprire le nostre orecchie per ascoltare la sua parola ancor prima che annunciarla agli altri, perché se prima non ascoltiamo, non sapremo parlare correttamente, sapremo solo balbettare qualcosa di insipiente e di incomprensibile agli uomini. Prima ancora di annunciare la sua Parola, di seguirlo, di camminare con lui e di diventare suoi testimoni, il Signore ci guarisce, ci converte, e ci chiede per il momento di "non dirlo a nessuno", perché vuole che smorziamo gli animi, a volte eccessivamente entusiasti di aver scoperto la sua Parola, e la lasciamo entrare con profondità nel nostro cuore, ci lasciamo prendere dallo stupore per le grandi cose che egli è capace di fare nella nostra vita, e annunciamo questa come una "nuova Creazione", con le parole stesse della Genesi e dei profeti: "Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e parlare i muti". E tutto questo, grazie a quel "sospiro" da lui emesso guardando verso l'alto; grazie, cioè, alla forza dello Spirito chiesta da Gesù stesso al Padre prima di compiere il miracolo del discepolato. Non dimentichiamolo mai: la Parola di Dio non è appannaggio delle nostre buone capacità, delle nostre doti, delle nostre attività pastorali, più o meno belle o più o meno elaborate. È sempre opera dello Spirito che il Signore invoca su di noi; è sempre opera della sua misericordia che apre i nostri orecchi alla sua Parola; è opera della sua potenza che ci permette, senza alcun nostro merito, di parlare correttamente di Dio, e di annunciare ciò che egli ha fatto per noi. |