Omelia (05-09-2021) |
don Lucio D'Abbraccio |
Apriamo il cuore e impariamo ad ascoltare! Il brano evangelico odierno ci presenta l'incontro di Gesù con un malato avvenuto in terra pagana: «uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli». Qui, annota l'evangelista, «gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano». Costui è un pagano, sordo all'ascolto della rivelazione del Dio di Israele e quindi incapace di rispondergli; ma anche per lui, come per ogni essere umano, vi è una promessa di salvezza da parte di Dio: «Coraggio, non temete!... Il vostro Dio viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi» (I Lettura). Tale promessa trova il suo pieno compimento nell'azione terapeutica di Gesù, il quale, come suo solito, opera in incognito, nel segreto, rifuggendo ogni ricerca di successo. Marco scrive che Gesù «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua». Dopo aver compiuto questi gesti, Gesù guarda «verso il cielo». Questo guardare verso il cielo sta a significare che il Figlio si rivolge al Padre e confessa che ogni potenza viene da lui, che senza la comunione con il Padre egli non potrebbe fare nulla (cf Gv 5,19). Di seguito Gesù emette «un sospiro». Quel «sospiro» che si lascia sfuggire al momento di toccare gli orecchi del sordo, ci dice che egli si immedesimava con le sofferenze della gente, partecipava intensamente alla loro disgrazia, se ne faceva carico. Gesù, dunque, mostra una reazione umanissima! A questo punto ecco la parola autorevole: «Effatà, cioè: Apriti!». Perché gli evangelisti riportano la parola di Gesù nella lingua originale? Effatà è parola aramaica, la lingua parlata da Gesù, anzi quasi il suo dialetto. È una di quelle parole (insieme con Abbà, Amen) che gli storici chiamano ipsissima vox, cioè la voce, il linguaggio spiccicato di Gesù. Il motivo del rilievo dato a quella parola è che già la primitiva Chiesa aveva capito che essa non si riferiva solo alla sordità fisica, ma anche a quella spirituale. Per questo la parola entrò ben presto nel rituale del battesimo, dove è rimasta fino ai nostri giorni. Subito dopo aver ricevuto il battesimo e dopo aver consegnato la veste bianca e la candela accesa al nuovo cristiano, il sacerdote gli tocca gli orecchi e le labbra, dicendo: «Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre». Questo gesto e queste parole stanno a significare che il nuovo cristiano deve aprirsi all'ascolto della parola di Dio, alla fede, alla lode, alla vita. Però, come già avvenuto in occasione di precedenti guarigioni (cf Mc 1,43-44; 5,43), Gesù esige silenzio in proposito e intima all'uomo guarito e a quanti sono con lui di non divulgare il fatto. Ma, annota l'evangelista, «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: "Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!"». I pagani ora non sono più esclusi dalla comunione con Dio, ma possono ascoltare Dio stesso che in Gesù li ha guariti dalla sordità e possono ora narrare a tutti gli uomini le meraviglie operate dal Dio di Israele (cf Mt 15,31). Ebbene, l'episodio evangelico è anzitutto rivolto a ciascuno di noi. Effatà. Apriti!, è un invito, dunque, a non chiudersi in se stessi, nel proprio guscio, a non essere insensibili ai bisogni altrui; ma restare disponibili e aperti nei confronti di chi ci parla e di chi ha bisogno di una nostra parola per sentirsi vivo. Effatà è anche aprirsi ad ascoltare la parola di Dio, trasmessaci dalla Chiesa e far entrare Dio nella propria vita. Un'eco forte dell'Effatà fu il grido che san Giovanni Paolo II levò nel giorno dell'inizio del suo ministero di pastore universale della Chiesa: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». San Paolo dice che «la fede viene dall'ascolto e l'ascolto riguarda la parola di Cristo» (cf Rom 10,17). Non c'è fede possibile senza questo ascolto profondo del cuore. Ma abbiamo mai dato a Dio la possibilità di parlarci? Abbiamo mai detto, come Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta?» (cf 1Sam 3,10). Apriamo il nostro cuore a Gesù e impariamo ad essere sordi non verso il prossimo ma verso coloro che parlano male di Cristo, dei nostri fratelli, con critiche e pettegolezzi. Il santo martire Ignazio d'Antiochia raccomandava ai suoi fedeli: «Siate sordi quando qualcuno parla male di Cristo». Impariamo ad essere sordi verso coloro che ci offendono o parlano male di noi, lasciando cadere le parole nel vuoto, anziché ribattere colpo su colpo. Quanti mali si eviterebbero se si lasciassero cadere nel vuoto parole dette in un momento d'ira! Ed infine Giacomo ci ricorda, con la sua consueta schiettezza, che i cristiani devono evitare favoritismi personali. Purtroppo quante volte noi facciamo discriminazioni! Quante volte facciamo differenze tra ricchi e poveri, tra persone potenti e importanti e persone umili e semplici. A tal proposito concludo con un episodio che si legge nella vita di san Giuseppe Cottolengo. Un giorno a Torino si presentò alla porta della Casa della Divina Provvidenza l'arcivescovo di Vercelli. Don Giuseppe Cottolengo, avvertito, si fece scusare con l'illustre visitatore, e gli fece dire che non poteva presentarsi a riceverlo immediatamente perché stava giocando un'importante partita alle bocce con un caro amico, ospite della sua casa: un handicappato che si sarebbe facilmente offeso se avesse interrotto il gioco. L'arcivescovo accettò quella lezione di umanità e volle avere l'onore di fare da arbitro e contare i punti nella gara di quei due accaniti giocatori di bocce. Ebbene, la comunità cristiana deve evitare ogni favoritismo, ogni preferenza, ogni vanagloria. La dignità è uguale per tutti i figli di Dio: le distinzioni sono soltanto servizi e chiamate ad amare di più e a servire di più. |