Omelia (12-09-2021) |
don Alberto Brignoli |
Cristo sì, croce no... Negli anni della contestazione giovanile e studentesca (tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta del secolo scorso), quando tutto veniva fortemente messo in discussione, nemmeno il pensiero e il vivere cristiano, ovviamente, erano esenti da revisione; e uno degli slogan che si sentivano spesso usare era "Cristo sì, Chiesa no", per indicare ovviamente che, se la figura del Cristo (soprattutto nel suo aspetto rivoluzionario e controcorrente) suscitava ancora un certo fascino nella società in cambiamento, ciò che non si riusciva ad accettare era l'aspetto istituzionale del messaggio cristiano, con tutto l'apparato gerarchico e sovrastrutturale che si portava dietro, e quindi la Chiesa - e il clero in particolare - era il bersaglio preferito della contestazione. Da qui, la disaffezione verso ogni forma di partecipazione alla vita ecclesiale che ha portato a un progressivo svuotamento delle nostre chiese e delle nostre assemblee, i cui effetti li avvertiamo pure oggi, ma di fronte al quale va riconosciuto che la Chiesa nel suo insieme non sempre è stata capace di dare risposte adeguate che non fossero quelle dell'autocommiserazione, dell'arroccamento su se stessa o del contrattacco frontale al mondo "laico". E pensare che Gesù stesso aveva avuto un atteggiamento di contestazione nei confronti delle autorità e delle istituzioni religiose del suo tempo. Non fu facile, per il Figlio di Dio, far comprendere all'umanità del suo tempo che il Padre suo era Padre di tutti e che ci voleva tutti come suoi figli, perché questo comportava l'accettazione di un volto misericordioso di Dio privo di giudizi e condanne, un volto affettuoso pronto al perdono e alla riconciliazione, un volto che avesse più la preoccupazione di amare e farsi amare dall'uomo, che non di essere da lui temuto. E soprattutto, non fu facile far accettare a chi lo ascoltava che egli fosse il Cristo, il Messia atteso da secoli dal popolo d'Israele, perché ciò che il popolo attendeva (a partire dai capi, ma non solo) era una guida, un leader, un capo religioso capace di ricostruire intorno a sé il glorioso regno d'Israele e, in questo modo, cacciare via dalla Terra Promessa i dominatori che la opprimevano, nella fattispecie di allora, l'Impero di Roma. Gesù ci prova più volte, in questo intento di far comprendere che il Regno di Dio non coincide con un regno terreno, e che il Messia non era figlio di un Dio pronto a combattere una guerra santa, bensì figlio dell'umanità, "Figlio dell'uomo", come amava definirsi, pronto a subire tutto ciò che l'umanità subisce, a soffrire tutto ciò che l'umanità soffre, anche le incomprensioni, le ingiurie, le persecuzioni, la morte stessa, e attraverso questa sofferenza portare l'umanità alla propria redenzione, al proprio riscatto, proprio perché capace di condividerne le sofferenze, perché capace di comprendere la fatica e la debolezza. Ma non fu facile farsi accettare come tale: e ciò non avvenne solamente con i capi e le autorità. Avvenne anche con le folle, che spesso lo seguivano e lo assecondavano in tutti i suoi discorsi e le sue gesta straordinarie; avvenne anche con i suoi più stretti collaboratori, i discepoli, che avrebbero dovuto seguirlo e comprenderlo più degli altri e che invece lo vedono sotto un'ottica completamente distorta. L'episodio narrato dal Vangelo di oggi è significativo di tutto ciò. Lungo la strada, quindi in un atteggiamento mai concluso di cammino, a Cesarea di Filippo, al nord della Palestina, lontano dal Tempio di Gerusalemme dove l'immagine di Dio e del suo Messia era ben connotata politicamente (e quindi in un contesto in cui si poteva parlare di tutto questo con serenità e senza pregiudizi), Gesù prima chiede ai discepoli che cosa dicono le folle di lui, e poi che cosa pensano essi stessi. Le risposte relative al pensiero della gente sono quasi scontate: un profeta, la reincarnazione di Elia oppure quella di Giovanni il Battista, quindi di figure del passato capaci di suscitare entusiasmo nella folla proprio per la loro caratteristica di leader, contestatori della autorità. Le risposte dei discepoli si concentrano invece nell'affermazione di Pietro, che si spinge ben oltre ciò che le folle pensano di lui e, in maniera esplicita, chiarisce il pensiero dei Dodici: "Tu sei il Cristo", tu sei il Messia che stiamo aspettando. Finalmente è arrivato il nostro leader, e siamo pronti a mettere in atto la rivoluzione attesa da secoli. E ci azzeccano: tant'è che Gesù ordina loro severamente di non parlarne con nessuno. Quando poi però Gesù inizia a spiegare che cosa significhi il suo essere Messia, e tocca quelle tematiche che dicevamo prima, ovvero l'aspetto di condivisione della sofferenza dell'umanità fino a subire la morte, per poi risorgere e far risorgere con sé l'umanità, iniziano i problemi e i contrasti. E quello stesso Pietro che lo aveva proclamato Messia, con molta discrezione, lo prende in disparte e lo rimprovera, perché ciò che egli ha detto non era ciò che la gente si aspettava. Da buon galileo rivoluzionario, Pietro ragiona pure lui per slogan: "Cristo sì, croce no"! Ma Gesù non ci pensa due volte a rimettere in carreggiata il futuro primo papa: e non lo fa con la stessa discrezione usata da Pietro, in disparte, senza che nessuno possa sentirli. Di fronte a tutti i discepoli lo definisce "satana", avversario di Dio e del suo progetto sull'umanità, e lo invita con forza a tornare al suo posto, dietro a lui, cioè a fare il discepolo come tutti gli altri, prima ancora che il Maestro, perché Pietro si dimostra peggio di quel povero e incolpevole sordomuto guarito la scorsa settimana, incapace di ascoltare prima ancora che di parlare. Pietro parla e sparla, prima ancora di aver ascoltato ciò che Gesù ha da dire. E Gesù è chiaro con i suoi discepoli, così come lo è con noi, oggi. Vogliamo essere discepoli di Gesù? Incominciamo a non ragionare per slogan o per sentito dire; incominciamo a parlare di Gesù non per quello che "la gente dice di lui", per ciò che abbiamo sentito di dire di lui, per ciò che ci è stato insegnato dalla tradizione, per quello che ci hanno insegnato a memoria al catechismo. Tutte cose valide e belle, fondamento della nostra storia con Gesù: però, poi, alla fine, dobbiamo arrivare noi a scoprire Gesù, e a dire con coraggio chi è lui per noi, che cosa diciamo noi di lui, che cosa rappresenta lui - e non ciò che ci hanno detto di lui - per la nostra vita di ogni giorno. E per fare questo, occorre mettersi alla sua scuola e ascoltarlo. Anche perché oggi ci dice una cosa molto chiara: hai capito che io sono il Cristo, il Messia, colui che salva l'umanità? Bene: allora, "se" vuoi seguirmi (bada bene, "se" vuoi venire dietro a me, perché nessuno ti obbliga a essere mio discepolo, cristiano, battezzato e praticante... deve essere una tua scelta, e non una scelta dettata dal "così fan tutti") accetta che il mio cammino sia il tuo stesso cammino di ogni giorno, quello della croce quotidiana portata sulle spalle, quello della fatica di ogni giorno, fatica dell'essere uomo e fatica dell'essere cristiano, fatica del lavorare e fatica del credere, fatica del costruire e fatica del camminare con me. Perché - conclude Gesù nel Vangelo di oggi - c'è un solo modo per salvare la nostra vita e darle un significato: perderla "per causa sua e del Vangelo", ovvero per lui, con lui e come lui ha fatto, donandola agli altri nel servizio e nella fatica, non nel comando e nel dominio sugli altri. È difficile, tutto questo? Sì, lo è, senza dubbio: ma Gesù non ci obbliga, ci invita, ci offre il suo "se"... "se vuoi venire dietro a me". Un cammino indubbiamente faticoso, che passa attraverso la Croce: ma "se" ci fidiamo di lui, è un cammino che termina giù dal Calvario, presso una tomba che rimarrà desolatamente e felicemente vuota. |