Commento su Sap 7,7-11; Sal 89; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30
Nell'evangelo di Marco un giovane corre verso Gesù. Nella cultura ebraica del tempo, quando si va verso qualcuno ritenuto importante, non si corre: si procede lentamente in segno di deferenza e di rispetto. E Gesù, per quel giovane, è una persona importante, lo chiama maestro buono in quanto lo considera superiore a tutti gli altri maestri. Perché corre? Corre perché ha un problema che l'assilla: che fare per avere la vita eterna, il Regno? L'uomo è credente e praticante: osserva tutte le norme religiose. Giovane ancora, potrebbe non pensare alla vita futura, nell'aldilà. Ma egli cerca la perfezione, per questo si rivolge al maestro buono. L'evangelo precisa che il giovane è ricco, possiede cioè beni e denaro. Lo sguardo di Gesù attraversa i suoi occhi, gli penetra nel cuore. La parola del maestro stravolge i suoi pensieri. Impegna a un discernimento. Lo esprimono bene i due versetti della Lettera agli Ebrei, di autore sconosciuto, che leggiamo in questa domenica: La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto. Gesù, dicendo al giovane di abbandonare le sue ricchezze, di vendere i suoi beni e di dare il ricavato ai poveri e poi di seguirlo, lo spiazza. Perché lo spiazza? Non perché è ricco, e forse la sua non era neppure l'iniqua, l'ingiusta, l'immorale ricchezza di cui parla, in altra parte, l'evangelo (cfr. Lc 16,1-13): con le ricchezze, infatti (che giuste o ingiuste che siano non sono «nostre») si possono riparare le ingiustizie sociali, operare una redistribuzione dei beni. Lo spiazza perché è attaccato alla ricchezza, ha fondato su di essa la propria sicurezza. Tutti forse conosciamo persone che, pur non avendo figli o eredi, e neppure essendo in giovane età, non riescono a staccarsi dai propri beni, in una costante propensione all'avarizia. Agli altri danno il minimo possibile. Vivono nella paura di perdere i loro beni, di vederli assottigliare.
Questo dato della paura si trova stampato non solo sul volto dei diseredati, di chi fa più fatica, di chi a metà mese non ha più denari per comperare il cibo per sé e per la sua famiglia, ma anche, forse soprattutto, di chi vive bene, libero da preoccupazioni economiche. La società capitalista, del potere, del dominio, del benessere, degli sprechi immani (in Italia i soli supermercati nel 2020 hanno buttato via 220 mila tonnellate di generi alimentari, senza contare la quantità dei generi alimentari finiti nei cassonetti da parte delle famiglie, mentre circa 3 milioni di persone sono a rischio fame), appare sempre più come la grande proiezione della paura e del rifugio nell'individualismo.
L'evangelo di oggi non interpella solo ognuno di noi come singoli - e tutti, in realtà, siamo un po' dei «giovani ricchi» -, ma ci interpella come comunità di appartenenza e come società. Siamo una «società di mercanti» e la strada è ancora lunga per trasformarci in una società conviviale. Ma per farlo occorre recuperare un modello di esistenza che è ancora molto lontano dai nostri pensieri e dalla nostra prassi. Dobbiamo convincerci che il mercato è un produttore di vittime. Teoricamente, le società fondate sul mercato sono società di eguali: il mercato è aperto a tutti; il valore che in esso si dovrebbe respirare è quello della libertà. Un identico prezzo viene richiesto, sempre in teoria, da qualsiasi venditore a qualsiasi compratore. Se così non fosse, secondo certe teorie economiche, sarebbe il mercato stesso a riequilibrare le situazioni di disparità. Bello, ma in teoria. Nella realtà, però, il mercato potenzia le diseguaglianze. Se il forte e il debole si trovano su un piano di parità, come vorrebbero le leggi economiche, è il più forte a imporre il proprio volere e le proprie scelte al più debole. Il primo domina, l'altro soccombe.
Nelle stanze ovattate del cinquantesimo piano di un grattacielo newyorkese non filtra il lamento di un'infinità di madri del terzo mondo che non riescono a comperare il latte per i propri figli. Come documenta il teologo Leonardo Boff, quando alla Borsa delle materie prime di Londra o di New York o di Pechino la soia perde due punti percentuali, significa che nelle favelas brasiliane o di Nairobi, per non fare che un esempio, la mortalità infantile cresce del due per cento, perché il governo taglia le risorse destinate al latte dei bambini, quelle risorse che erano vincolate al guadagno della vendita internazionale della soia. Una società basata su questi presupposti, su questo mercato, su queste regole è manifestamente ingiusta. Fa paura.
L'evangelo di oggi, se letto in modo contestuale, ci chiama a fondare una società conviviale, un'esistenza planetaria conviviale. Ci chiama a instaurare relazioni umane giuste e pacifiche, capaci di superare l'ingorgo, il circolo vizioso: produzione - distribuzione - consumo, dominato da quelle leggi che rispondono alle esigenze e ai comandi del dominio e del potere. Non si tratta di negare dogmaticamente il mercato, si tratta di non accettarlo nella sua forma capitalistica e di cogliere, con sensibilità, per contrastarli e per cambiarli, quei meccanismi alienanti che si formano all'interno del mercato e che trasformano i rapporti umani in rapporti mercificati e mercificanti. Utopia, forse, se queste sono idee di una persona singola; impegno realizzativo se diventano patrimonio di una comunità.
Non basta, però, in un mondo la cui disumanità è così evidente, fare una lettura etica e politica della situazione. Urge, per un cammino di fede da farsi anche in famiglia, recuperare una lettura teologica e biblica per comprendere come questa condizione entri in lotta di collisione con il «beati voi, poveri!» dell'evangelo, con l'utopia del Regno - quel Regno di cui era alla ricerca il giovane ricco - fondata sulla liberazione di chi ha fame, sete, patisce ingiustizie. Il mercato globale in cui viviamo sta dando origine a una nuova religione, la religione delle merce, basata sul meccanismo vittimario dell'idolatria (dove c'è un idolo, c'è una vittima), un centro di orientamento alternativo all'esperienza di comunità che dovrebbe governare la vita sociale ed ecclesiale, in cui il dare e il ricevere, la reciprocità e la regola del dono, la gratuità e l'alleanza dovrebbero essere al centro. Ma solo chi vive la dimensione autentica della povertà può cogliere questa alternativa personale, ecclesiale e sociale.
Non ci resta che chiedere al Signore di donarci la prudenza e lo spirito di sapienza, da preferire a scettri e troni, a tutta la ricchezza del mondo.
E col Salmo preghiamo:
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.
(Salmo 89).
Traccia per la revisione di vita
- Facciamo discernimento sulle nostre piccole o grandi ricchezze, proprietà, sulla loro origine, sul denaro che possediamo e che spendiamo? Siamo convinti che i beni non sono nostri, ma di tutti?
- Facciamo discernimento sulle ingiustizie, sulle fatiche di troppe persone, sulle immani differenze che attraversano il mondo in cui viviamo? Quali sono le nostre reazioni? Le accettiamo come naturali o ci impegniamo in qualche modo a contrastarle?
- Viviamo in modo sobrio o siamo anche noi tra coloro che sprecano e buttano nei cassonetti della spazzatura gli avanzi?
Luigi Ghia - Direttore di Famiglia domani, rivista dei CPM italiani.
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