Omelia (17-10-2021)
CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie - famiglie)
Commento su Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45

Grande figura quella del profeta Elia con cui si apre la Liturgia della Parola di questa 29a domenica del tempo ordinario. Figura complessa, in cui convivono sentimenti contrastanti, coraggio e paura, esaltazione e depressione, addirittura fondamentalismo religioso (non esita a scannare, con l'aiuto del popolo, i 450 profeti del Dio Baal, il cui culto era voluto dalla regina Gezabele. Siamo nel IX secolo avanti Cristo). L'ira della regina, che aveva già fatto sterminare tutti i profeti di JHWH, lo obbliga a fuggire verso il monte Oreb. In questa fuga si presenta la grande depressione.


Elia è in marcia nel deserto. Il sole rovente lo acceca, gli toglie le forze. È deluso. Non ce la fa più. A un tratto vede un puntino, là in fondo. Si avvicina: è un alberello di ginestra e c'è un filo d'ombra. Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Tutta la Parola di questa domenica indica un cammino faticoso. La strada della grande depressione. Come la strada che scende da Gerusalemme a Gerico. Come, per il Maestro, il transito verso l'Orto degli ulivi. Elia si siede sotto l'arbusto spinoso del deserto: pungente, come sa chi il deserto lo ha percorso. Non per nulla Giacomo Leopardi ne dà il titolo alla sua penultima lirica, pubblicata postuma, premettendo ad essa, in epigrafe, la citazione di Giovanni: «Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς» (Gv 3,19), «E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce, che dice, secondo il poeta, la difficoltà di trovare la luce in mezzo all'oscurità più profonda, nella distretta, nella fatica e nel dolore.

Il dolore umano va preso sul serio. Non è uno scherzo: va colto anche nelle situazioni più complesse, e per farlo occorre sempre mettersi nei panni degli altri, cioè nella loro storia oltre l'ideologia, ma anche oltre una certa teologia; va colto nei drammi della solitudine, in quelli delle donne abbandonate, sfregiate da un compagno geloso, delle donne che non ce la fanno a portare avanti una gravidanza, dei bambini sballottati da uno all'altro perché hanno perso entrambi i genitori. Il dolore umano va rispettato e venerato, come il Pane che si conserva nei tabernacoli delle nostre chiese.

Popoli alla deriva. Zattere di speranza che si schiantano sugli scogli delle coste, lasciando intravedere ai profughi una liberazione subito negata e ai quali, lo dicono le cronache, qualche uomo politico vorrebbe addirittura sparare. Falliti della vita: donne e uomini che vivono l'irreversibilità dello scacco, della sconfitta. Impoveriti. Drogati. Tutte le vittime. I crocifissi della storia. Bambini, bambini... Una strage. «Sono pronto a comparire davanti al giudice divino, ma avrei anch'io alcune domande da porre al giudice, domande sul dolore dei bambini innocenti», esclamava Romano Guardini sul letto di morte. La strada, questa strada, è il santuario delle nostre eucaristie. Ogni scacco, ogni disagio e ogni vittima richiamano sempre una teodicea, la domanda incessante su Dio.


Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino».


Dall'«ora, basta!» all'«alzati e mangia» per Elia c'è il sonno: può essere tanto il sonno del lasciarsi andare senza speranza, del lasciare che le cose vadano come vanno o il sonno dell'affidarsi a Dio. Questo sonno rappresenta una cesura. Ed Elia si addormenta due volte, prima e anche dopo aver mangiato ed essersi dissetato. E l'angelo (la coscienza, quella che nessuno di vorrebbe avere, perché scomoda...?) lo richiama: Alzati, mangia, rimettiti in cammino, un cammino che senza nutrimento è troppo lungo per te. Elia, si rialza, mangia e beve, si rimette in cammino. Il più di coscienza ha avuto la meglio sulla grande depressione. Elia ha trovato il senso all'esistere.


Questo più di coscienza, questa ricerca di un senso pieno all'esistere è il momento culminante dell'Eucaristia. È un peccato che nei secoli, almeno fino ai tempi di quel Concilio che oggi alcuni vorrebbero rimuovere dalla coscienza e dalla memoria collettiva, la Chiesa lo abbia trasformato in un precetto che - se pur poteva avere inizialmente una finalità pedagogica - si è trasformato nel tempo in un ritualismo rubricistico che, impedendo le grandi visioni, soffoca i carismi e la profezia.

Grande mistero, l'Eucaristia! Essa è davvero il momento ascensionale in cui io, persona, trovo la mia realizzazione. Io, la più abbietta e la più debole delle creature, sono entrato in contatto intimo con la Trascendenza. «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,48-51). Quando sono in contatto intimo con la persona che amo, non la chiamo neppure più per nome. Gesù non chiama il Padre per nome, perché Dio non ha nome. Egli è l'Innominabile. È lo spazio che s'apre oltre l'umano, uno spazio che può essere riempito solo dalla mia invocazione. Non posso appropriarmene. Attraverso questa invocazione, so che, anche se discendo all'inferno con i miei compagni di strada - e devo, voglio discendervi, come ha fatto il Cristo nel silenzio allucinante del sabato santo, prima della Risurrezione - non potrò più precipitare verso la dissoluzione e la morte. Sono in Dio. Sono di Dio. L'angoscia della fragilità - che pur permane perché è una componente ineliminabile della nostra umanità, della nostra creaturalità - viene ancorata al Cristo, redenta, trasfigurata. I piedi sulla terra sono ora leggeri. Ho alzato gli occhi al cielo. L'Eucaristia? Un mistero per persone deboli, fragili, peccatrici. Un mistero che interpella e impegna la mia fragilità.


Alzati e mangia! Ho conosciuto preti che hanno rifiutato la preparazione al matrimonio a fidanzati conviventi. Che hanno rifiutato il pane della vita a coppie divorziate e risposate. A chi ne aveva più bisogno. Loro hanno mangiato e bevuto alla Mensa. Non giudico. Leggo e rileggo e cerco di fare mie le parole di Paolo ai cristiani di Efeso: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo». (Ef 4,31-32). Ma provo, potrei farne a meno?, un'infinita tristezza. È un'immagine mitologica, trasmessa e sedimentata lungo i secoli, quella di un Dio «giudice» severo, che premia e castiga, che divide i buoni dai cattivi, che manda i primi in Paradiso e i secondi all'inferno. La comunità cristiana ha finito con il riprodurre, nel momento centrale della sua vita, la celebrazione dell'Eucaristia, il modello dell'etichettatura e dello scarto. Così, quando in tempo di Covid chi partecipa alla Cena si alza in piedi per ricevere il pane, mentre chi si astiene rimane seduto, si ripete all'interno della comunità la medesima secolare ambiguità: si accosta alla mensa chi si ritiene degno e puro; se ne priva chi si ritiene indegno e peccatore.


Ma non è questo il Dio di Gesù. «Io sono il pane della vita... Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» Se Lui ti invita a pranzo, non pretende certo che tu digiuni.


Nella Chiesa che vorremmo nessuno è etichettato; nessuno è scartato.

«Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).

Venite a me, voi tutti che vi sentite fragili, peccatori, indegni, facciamo un tratto di strada insieme. Alzati e mangia. Venite a me, voi che avete avuto un prima esperienza matrimoniale fallita, ma che ora avete trovato una vita piena: io sono il Dio della vita. Non sedetevi sul passato. Alzati e mangia. Venite a me, fidanzati che convivete: io vi darò il gusto del «per sempre», io vi dirò che sono sempre con voi, oltre le vostre fatiche. Venite a me, voi che non avete il coraggio di staccarvi dai beni materiali, io vi darò il gusto della sobrietà e della condivisione. Alzatevi tutti, ma proprio tutti, e mangiate.


Nel giorno di Pasqua ebraica, nell' Haggadah di Pesach, nel corso del Seder), alcuni ebrei lasciano una coppa di vino dinanzi all'uscio o ad una finestra aperta, in attesa che Elia torni e festeggi con loro la liberazione.

La liberazione. Camminiamo verso di essa con quel pane e con quel vino.


Con la forza di quel cibo si mise in cammino...


Traccia per la revisione di vita

- Abbiamo vissuto anche noi, come Elia, momenti di sconforto, di fatica, di delusione, di depressione? Senza rimuovere quei momenti, proviamo a ripercorrerli, in un cammino a ritroso.

- Ci capita di avere atteggiamenti di asprezza, sdegno, ira, grida, maldicenze, malignità? Come reagiamo?

- Quando ci accostiamo all'Eucaristia, ci sentiamo migliori di chi non ha il coraggio di accogliere il pane e il vino della liberazione?


Luigi Ghia - Direttore di Famiglia domani