Omelia (10-10-2021) |
padre Gian Franco Scarpitta |
La vera ricchezza "Fai del denaro il tuo Dio e ti tormenterà come il diavolo", dice uno sconosciuto autore di aforismi rilevando la melensaggine e la pericolosità della cupidigia e della ricerca sfrenata del successo economico. Anche la Bibbia mette in guardia dalla lussuria, dal vizio e dall'opulenza eccessiva, apportatrici di malessere e di dispersione nella nostra convivenza. "L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede", denuncia Paolo (1Tm 6, 10) e la corsa sfrenata al potere e alla ricchezza è alla radice del peccato e della malvagità. Non si vuole condannare tuttavia la ricchezza in se stessa o la persona degli uomini facoltosi e benestanti. Possedere un capitale o una grossa risorsa infatti non necessariamente coincide con l'essere detestabili o peccaminosi; la ricchezza in quanto tale non è da considerarsi deprezzabile o apportatrice di malesseri. Al contrario, tante volte l'esistenza di magnati della finanza o di uomini di affari si è rivelata un beneficio a vantaggio della società e del mondo occupazionale; le attività di persone altolocate della finanza e l'impegno di ricchi possidenti hanno apportato non poche risorse allo sviluppo del Paese, poiché le possibilità di occupazione e di impiego risiedono spesso negli investimenti da parte di ricchi industriali. Che taluni possiedano delle risorse più vantaggiose rispetto ad altri spesso è indice di sicurezza economica per tanta gente in cerca di lavoro e non di rado chi ha tanto condivide fortunatamente con chi dispone di poco. Ciò che va riprovato non è infatti il guadagno, il lucro o la ricchezza considerata in quanto tale, ma la trappola fatidica dell'attrattiva oltremisura che queste comportano. Essere succubi del denaro, cadere vittime della cupidigia e della volontà smodata di successo economico che conducono a identificare la ricchezza come un fine e non già come un mezzo, questo è riprovevole sia dalla Scrittura sia dallo stesso buon senso dell'umano. Idolatrare le proprie sostanze, fare di esse la propria sicumera, l'obiettivo della propria vita al punto da diffidare degli altri e da chiudersi ai rapporti e alle interazioni, questo è dannoso e addirittura demoniaco. Il successo economico incontrollato, il guadagno a dismisura, l'incontentabilità dell'arricchirsi per continuare ad accumulare spesso conduce al distacco e alla reticenza verso il prossimo, indice a innalzare attorno a noi delle barriere inani di protezione per le quali si diffida di chiunque e conduce anche a legittimare disonestà e scorrettezze; insomma l'uso improprio e la schiavitù alla quale le ricchezze incontrollate ci costringono, questo è il vero demone da esorcizzare. La sottomissione alle sicurezze di questo mondo è lesiva perfino nella religiosità e ostacola anche il progredire in noi delle virtù, anche quando ci sembri che esse si siano in noi fomentate. Nell'odierno Vangelo di Marco si delinea come l'attaccamento al denaro sia di ostacolo anche per coloro ai quali manchi una lira per fare un milione, come questo giovane ricco: potrebbe essere perfetto, ossia meritorio del Regno già su questa terra se solo desse tutti i suoi averi ai poveri per avere Gesù come unica certezza. Era già a buon punto con la sua formazione morale di uomo zelante nel bene e ottemperante, perché osservava i comandamenti prescritti, tuttavia si tira indietro quando Gesù gli chiede di operare il "magis", cioè il "di più" che lo avrebbe reso esaltante anche accanto agli angeli. Si rifiuta di seguire Gesù perché preferisce restare nella mediocrità., accontentandosi del "quieto vivere" senza impegnarsi in ulteriori scelte di vita meritorie. Avere il cuore attaccato al denaro probabilmente smentisce la sua perfezione o almeno la rende incompleta. Non è in grado di valicare il limite che gli si pone davanti perché trova come ostacolo non già le risorse economiche ma la prigione che queste gli hanno procurato. Anche nei miei trascorsi in seminario, ricordo che parecchie vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa si perdevano a causa della negligenza di taluni candidati a voler rinunciare all'eredità dei genitori, allo stipendio e alle proprietà personali, come prescrive il voto di povertà. Come già osservava Seneca, invece, "Grande è chi sa essere povero in mezzo ai soldi". E' veramente padrone di se stesso e del mondo intero chi non si lascia avvincere dalle seduzioni del potere e del vantaggio economico e chi mantiene le distanze da ogni attrattiva di cui il denaro è capace. Indipendentemente da quanto si possiede, è possibile essere liberi e realizzati senza confidare eccessivamente nelle proprie ricchezze, omettendo di fare del potere e del denaro un motivo di sicumera. E soprattutto si è davvero felici e affermati quando si è capaci di condividere ciò che si possiede con coloro che versano nel bisogno; quando cioè la ricchezza materiale diventa opportunità di apertura e di donazione, una prerogativa per dare agli altri il meglio di noi stessi, soprattutto ai poveri e agli indigenti. La vera ricchezza risiede in definitiva nella "sapienza" di cui parla il re Salomone nell'omonimo libro di cui alla Prima Lettura di oggi. Il monarca, agli esordi del suo governo, chiedeva a Dio di saper distinguere il bene dal male, di avere docilità e umiltà, di disporre della dovuta sapienza con la quale dirigere i suoi sudditi (1Re 3, 3 - 10) e tale risorsa spirituale egli considera ben superiore a qualsiasi ricchezza materiale. La sapienza, cioè il discernimento e la saggezza nel prendere decisioni con giustizia e imparzialità, è alla radice di tutti gli altri vantaggi anche materiali perché mentre indaga su come meglio dare, ci procura di ricevere inaspettatamente il meglio. |