Omelia (17-10-2021) |
don Mario Simula |
La libertà del servo La ricchezza del dolore vissuto come dono fa diventare fecondi fino a generare ogni forma di vita buona. Si può amare senza dolore. Tuttavia, all'orizzonte di ogni costruzione stabile e duratura, c'è sempre il prezzo di una sofferenza che l'offerta della nostra persona rende sublime, mirabile e specchio di nobiltà umana e spirituale. Questa è l'esperienza del Figlio dell'uomo: prima "viene prostrato con dolori", poi "vedrà una discendenza". Generare significa portare un peso, talvolta ostile. Un peso che prostra il cuore, ma non raffredda l'amore. Addossandosi l'iniquità del mondo, il Figlio dell'uomo, piegherà le spalle al "tormento intimo" dell'anima. Conoscerà l'oscurità e il buio della notte, per dischiudersi poi al fulgore della Luce. Ogni uomo e donna, ogni costruttore di comunità, ogni artefice di relazioni, conoscono il frutto dolce dell'amore scambiato fino al dono totale, ma anche quanto sia faticoso e impegnativo amare. Nella nostra vita molti hanno avuto la straordinaria avventura di edificare una comunità o di prenderla in consegna da un altro per aiutarla a crescere. Abbiamo imparato a comprendere, sulla nostra carne, cosa significhi tenere tra le mani una creta informe - una chiesa fatta di credenti da generare ogni giorno alla fede - oppure l'opera d'arte già plasmata da altre mani per custodirla e per farla diventare una casa per Dio e un incontro caldo per il popolo di Dio. Sappiamo cosa significhi trascorrere giorni e mesi ricucendo rapporti, costruendo relazioni, ritrovando dialoghi. Sappiamo quanto si pianga e come si stanchi il cuore nel portare il peso di una comunità, a volte lontana e incapace di comprendere i nostri messaggi. Sappiamo quanto sia difficile, nella vita, condividere il lavoro con gli altri, custodire un dialogo familiare, comprendersi in una chiesa che se ne va per la sua strada dimenticando le singole persone. Tutti sperimentiamo la solitudine dimenticata da chi può accoglierla, perché prevalgono i programmi e i ritmi degli impegni di ogni genere. Nonostante tutto questo, siamo chiamati, come il Figlio dell'uomo, a costruire "terre d'incontri". Anche quando non riceviamo risposte. I tempi per costruire ci appartengono. Sono nostri. Sono la nostra vita. Anche in mezzo a circostanze sfavorevoli o contrarie. I tempi per costruire li segna Dio e la buona volontà degli uomini. "Fare comunità" è sempre il grido di un/una partoriente. Quando non possediamo alcuna sicurezza, ci accorgiamo di poter contare solo sulle risorse del cuore. Sono i periodi del dolore senza risposte nei quali la tua risposta è l'ascolto, la vicinanza, la strada, ogni casa dove respira e cerca di vivere insieme la gente di tutti i giorni, anonima e sola, proprio come lo siamo noi. Possiamo contare sugli avvenimenti della vita che nessuno può schivare perché ci aspettano ineluttabili e preziosi: nascite, morti, matrimoni, incontri avventurosi con Dio ogni giorno. Ospiti tutti - Dio compreso che è venuto a condividere la nostra condizione - di una tenda provvisoria e instabile. A renderla certa è, ancora una volta, lo schianto del dolore che redime, incoraggia, edifica. Il dolore promesso come unica risorsa a Gesù che viene, Figlio dell'uomo, accanto a ciascuno, solidale e misericordioso. Possiamo non avere un tetto e una garanzia di protezione. In cambio non ci mancherà mai il dolce peso delle iniquità della gente e nostre. Carico pesante che soltanto il fuoco di Gesù rende leggero. Gesù racconterebbe tutta questa storia con parole sue, con parole che Lui soltanto riesce ad articolare. Quelle parole che un giorno avevano lasciato stupito Pietro: "Tu solo, Gesù, conosci e trasmetti parole di vita eterna!". Gesù ci dice, come ad amici e discepoli: "Se vuoi diventare grande in mezzo e agli occhi della gente, scegli di essere suo servitore; se vuoi essere il primo nella tua comunità, nella fabbrica, nella corsia di ospedale sii schiavo di tutti. Guarda quello che ho fatto io: non sono venuto per farmi servire, ma per servire e dare la mia vita in riscatto per molti. Io sono venuto non per servirmi di voi, ma per servire voi". Gesù si ripropone come Figlio dell'uomo che offre la vita, in contrapposizione al modo di essere nostro e al modo di essere delle comunità. Due dei suoi dodici apostoli ambiscono stoltamente i posti di prestigio nel Regno. Senza pudore domandano questo a Gesù. Gli altri dieci, sentita la pretesa, così diffusa nei nostri ambienti di chiesa, si indignano fortemente e anche con una certa dose di malevolenza gelosa. Gesù ricorda a tutti che questa visione del mondo appartiene ai potenti, che ne diventano schiavi e la mettono in atto da tiranni. Noi non dobbiamo ambire ad un posto di comando o di prestigio. Non abbiamo potere alcuno. I discepoli che seguono Gesù, vescovi, preti e laici, sanno che l'unica loro ambizione deve essere "bere il calice e morire come e con il Maestro". La vera competenza di Gesù, quella che ci sconvolge e, a volte, ci scandalizza, è la sua disponibilità a "prendere parte alle debolezze di tutti, portare su di sé le fragilità del mondo, essere messo alla prova, eccetto che nel peccato". Eppure il male non gli appartiene in nessun modo. Mentre appartiene a noi. E' chiara, quindi, la strada tracciata da Gesù. E' chiara la vocazione alla quale ci abilita. E' chiaro il dono che Gesù fa a ciascuno di noi: morire come l'ultimo di tutti, come il servitore di tutti. Aderire a questa chiamata ci avvicina "con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere aiuto e misericordia da Colui che non conosce altre parole se non quelle dell'Amore". Siamo in un altro modo di vedere le cose. L'unico che ci fa assomigliare a Gesù, amico e maestro delle nostre esistenze. Gesù, tu conosci le mie fragilità, eppure non mi fai sconti e non usi mezze misure con me. Sono innumerevoli le occasioni nelle quali mi perdo, confrontandomi con chi viene considerato più di me. Divento inflessibile quando vedo arrampicamenti, scalate illecite o per lo meno discutibili, improvvise e fondate su un clientelismo che non manca nemmeno nella tua chiesa. Gesù, dobbiamo parlarne. Sento ogni giorno la fatica e il dolore gioioso del parto, quando, in solitudine nonostante le dichiarazioni contrarie, devo inventare ogni giorno dal nulla una comunità: quella che tu vuoi. Gesù, ti chiedo di essere sincero con me, di usare, senza sotterfugi, la franchezza. Fino ad oggi ho "servito" la comunità? Ho accolto ogni singola persona con i problemi che mi poneva? Sono stato l'ultimo di tutti perché nessuno provasse soggezione davanti a me? Gesù, mi dirai di non pensare a quello che è avvenuto. Non sono per nulla d'accordo. Tu, parlandomi, puoi affinare il mio cuore e la mia sensibilità. Puoi darmi forza. Incontro tante persone. Parlo di Te. Sono chiamato a svolgere compiti che riguardano gli altri. Forse non ho da dire più nulla nella mia Chiesa. Devono farsi strada i giovani anagrafici. Cosa posso offrire di buono io? Allora? Non hai nulla da dirmi, visti gli antefatti della mia vita? Tu, Gesù, mi chiedi attenzione, cura, premura, dialogo, servizio nascosto, collocamento nelle retrovie. Ogni servizio è prezioso ai tuoi occhi. Mi chiedi di non risparmiarmi mai. Di stare sulla breccia. Di morire al fronte. Mi chiedi di imparare a contare i miei giorni perché acquisti la sapienza del cuore. Gesù, sto capendo che, alla fine, mi domandi di vivere il mio tempo con amore, con la passione di sempre, come chi, anche fuori tempo, non si può permettere di non avere figli da generare e da accudire. Capisco che, subito, volevi dirmi ancora questo. Tutte le altre osservazioni, Gesù, ce le riserviamo al momento in cui ci troveremo a quattr'occhi. Di notte, generalmente, perché Tu, riguardo agli orari, sei e rimarrai sempre incorreggibile. |