Omelia (17-10-2021) |
don Alberto Brignoli |
Arrivano i “nostri”... Non saprei dire quando sia il momento esatto in cui la Chiesa ha iniziato - almeno qui in Italia o in Europa - a godere di alcuni "privilegi" o quantomeno di alcune agevolazioni e favori da parte dell'apparato statale. Certamente, è qualcosa di molto radicato nel tempo, forse già dai tempi di Costantino il Grande che, liberalizzando il culto cristiano nell'impero a metà del IV secolo, iniziò una collaborazione con quella piccola parvenza di struttura ecclesiastica (allora erano il Papa e qualche vescovo, nulla più) che divenne poi riconosciuta ufficialmente dall'imperatore Teodosio nel 380, con l'editto di Tessalonica. Da allora non terminarono affatto le persecuzioni nei confronti dei cristiani, ma di certo i nostri antenati nella fede potevano appellarsi a una legge che riconosceva la religione cattolica come l'unica e obbligatoria religione dell'Impero Romano. Sono questi i momenti storici nei quali "la Chiesa entra nel Palazzo" e "il Palazzo entra nella Chiesa", ossia potere politico e potere ecclesiastico iniziano un connubio che per molti aspetti ha portato a una pacificazione tra i credenti in Cristo e una società che faticava ad accettarne la dimensione sociale e civile, ma che in compenso, a causa di un crescente gioco delle parti basato su richieste, reciproci favori, scambi di cortesie, rapporti non sempre chiari tra i vertici dell'una e dell'altra parte, ha condotto a situazioni che definire "spiacevoli" è un eufemismo, e nelle quali chi ci ha rimesso di più, alla fine, è stata la Chiesa; non tanto per via di mancati benefici, di privazioni o di torti subiti (nemmeno troppi, per la verità, se non in determinate epoche storiche), quando per la sua perdita di credibilità, e soprattutto per la perdita del suo essenziale riferimento all'unica legge e all'unico privilegio del quale le è consentito beneficiare, quello di vivere il Vangelo predicato da Gesù, basato sulla legge dell'amore e del servizio. Quando la logica del servizio lascia posto alla logica del potere; quando la logica del silenzio e del nascondimento lascia posto alla logica delle chiacchiere e della visibilità; quando la logica della Chiesa missionaria che va nel mondo "di tenda in tenda" e "zaino in spalla" lascia posto alla logica della Chiesa stanziale che si insedia nelle stanze del potere, il rischio di tradire l'essenzialità del messaggio evangelico è elevato. Ma questo rischio non avviene, o non è avvenuto - storicamente parlando - solo nei rapporti tra la Chiesa e il potere politico o civile, ma anche all'interno della Chiesa stessa, della comunità dei credenti. E allora, qui, la richiesta di privilegi particolari ha origini ancor più remote, potremmo dire "evangeliche" nel senso che già al momento della stesura del Vangelo, nel momento in cui il Vangelo non era "narrato", ma vissuto in prima persona dai discepoli con Gesù, questo desiderio di avere "un posto particolare" nel Regno di Dio era già presente. Il brano di Vangelo che la Liturgia ci propone oggi ne è l'emblema: Giovanni e Giacomo, i due fratelli, figli di Zebedeo, "si avvicinano a Gesù" (un particolare interessante, quasi che Marco ci stia insinuando che il loro modo di ragionare fosse "lontano" da quello del Maestro) per chiedergli un posto privilegiato nella gloria del Regno, quello di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, come si usava fare nelle cerimonie di intronizzazione di quel tempo, dove a fianco del re e della sua consorte venivano fatti sedere i più importanti tra i funzionari del Regno. Quasi a ribadire a Gesù che essi si sentivano "privilegiati" rispetto agli altri, e pur di ottenere questo accettavano anche di "bere il calice" di Gesù, qualunque sofferenza ciò avesse comportato, perché si sentivano pronti a tutto, anzi forse perché già pensavano di aver dimostrato a Gesù di saperci fare, di essere all'altezza, di essere bravi, di essere meglio di tanti altri, certamente meglio degli altri dieci. I quali peraltro - almeno a livello di mentalità - non si sentono da meno: tant'è che si indignano di tale comportamento dei due fratelli, non foss'altro perché sentivano pure loro di essere in grado di fare tutto quello che il Maestro chiedeva loro, e soprattutto tradivano un certo interesse nell'essere oggetto di privilegi all'interno di un Regno del quale nessuno di loro - nonostante da tempo, ormai, Gesù ne stesse spiegando il significato - aveva ancora compreso la logica e l'essenza. E Gesù ribadisce - per la verità con molta pazienza e tenerezza, cosa che nessuno di loro si sarebbe meritato, di fronte a una richiesta a dir poco "meschina" - il concetto fondamentale del Regno: essere come lui, divenire una sola cosa con il Maestro, il quale sta insegnando loro che la sua venuta nel mondo non è volta a creare un Regno basato sul dominio e sul potere, ma sul servizio e sull'amore. E questo, indipendentemente dal posto che ognuno di noi è chiamato a occupare nel Regno di Dio, perché a ognuno di noi è stato preparato e assegnato un posto trovandoci nel quale dobbiamo solo preoccuparci di servire e di amare, e non di ottenere privilegi, sconti, agevolazioni e preferenze. Quanto è attuale questo brano di Vangelo anche nella Chiesa di oggi, anche nelle nostre piccole o grandi comunità cristiane sparse sul territorio, e non solo nei palazzi del potere! Quanto è vero, ancora oggi, che esiste gente che si dà un gran da fare nella Chiesa con generosità e spreco di tempo, di soldi, di energie che però, in cambio, pretende o anche solo va in cerca di privilegi e favori rispetto agli altri fratelli e alle altre sorelle... Quanta mentalità ancora legata al "farsi vedere", al "farsi notare", al fare le cose per un proprio tornaconto, a mettersi al servizio della comunità sperando, tuttavia, che la comunità (o meglio, chi guida la comunità) abbia nei suoi confronti un occhio di riguardo. E quanta rabbia suscita, in certi cristiani impegnati, la scelta da parte del pastore di considerarli uguali e identici agli altri, senza fare preferenze per nessuno, tanto meno a loro che le chiedono e le desiderano sulla scorta del "siamo bravi, siamo capaci, possiamo fare questo meglio degli altri, possiamo arrangiarci da soli". Ma quanti errori anche da parte di noi pastori, di noi responsabili, di noi sacerdoti, di noi amministratori, sempre pronti a lodare e incensare "i nostri", sempre pronti a portarli in palmo di mano, sempre pronti a dare loro un posto privilegiato, seduti al nostro fianco, su un trono, lontani - come lo siamo noi, di fatto - dalle logiche del servizio e della dedizione incondizionata agli altri. Forse dovremmo imparare a non dire più "i nostri" a nessuno dei cristiani impegnati delle nostre comunità, e lasciare l'aggettivo "nostro" al Padre che è nei cieli e di fronte al quale siamo tutti suoi figli, uguali nella dignità, uguali nella responsabilità. |