Omelia (24-10-2021) |
don Mario Simula |
A scuola di un disabile Il canto di speranza del profeta irrompe nella nostra vita, ci riempie di gioia e impone il silenzio alle visioni pessimistiche della storia del mondo e degli uomini. Dio non si dimentica mai dell'opera delle sue mani. Dio, senza stancarsi, ama stare accanto all'uomo, sua creatura. Ogni volta che ci incontra, la gioia prende il sopravvento nel suo cuore di Padre. La sua felicità è stare con i figli dell'uomo. La Parola di Dio ci esorta alla melodia. Alla danza. Alla letizia. Il Signore ci ha salvato. I segni della salvezza sono tutti paterni e materni. Non hanno il clamore della potenza, ma la semplicità della mano tesa al bambino perché non cada e si faccia del male. Dio raduna la sua famiglia. Senza escludere ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti. Uomini e donne di ogni ferialità, di ogni strada e di ogni casa normale. Tutti coloro che erano partiti piangendo, ritorneranno nella gioia e tra le consolazioni. In mezzo alla fecondità della natura e per strade diritte. Dio è padre per noi e noi siamo per lui primogeniti. In questa visione grandiosa, nella quale non ci sono i potenti e gli arroganti, ma soltanto le persone semplici, sono contenute le aspettative del lavoratore sfruttato, del malato non assistito, del povero ignorato e cacciato, dei muti che non sanno difendersi a parole, dei ragazzi e dei giovani traditi dalle promesse, dei ragazzi, adolescenti e bambini, la cui spontaneità e freschezza vengono vendute al mercato della soddisfazione facile, dagli sciacalli che vanno alla ricerca di vittime. E noi, credenti nell'amore, dove siamo? Chissà se andiamo dietro le orme di Gesù sacerdote, pronto ad offrire se stesso per salvare chi nessuno calcola e per il quale nessuno spenderebbe uno spicciolo. Mi chiedo se sentiamo la giusta compassione per chi viene sfruttato perché non possiede armi di difesa. Mi chiedo se ne assumiamo la debolezza. A volte penso al grigiore delle nostre comunità, all'insignificanza della loro presenza dentro il tessuto umano dove si agitano i veri problemi delle ventiquattro ore. Una fede imborghesita e paganizzata cosa può dire ad un mondo che brancola nella dispersione? Ancora riescono a tenere le mani levate al cielo quelle piccole donne, "le quattro vecchiette" senza conoscenze ma abbeverate di amore, alle quali non dedichiamo un attimo di attenzione. Noi ci occupiamo dei ragazzi e dei giovani "inesistenti". Hanno già fatto le loro scelte. Il racconto di Bartimeo è una sintesi disarmante di tutto. Bartimeo è cieco: un disabile. Se ne sta lungo la strada seduto: un emarginato che inquina i nostri percorsi comodi. Chiede l'elemosina: un mendicante che ci importuna davanti alle chiese. Possiede, tuttavia, dentro di sé la ricchezza più grande: sente Gesù che passa, si accorge di Lui, entra in sinergia profonda e misteriosa con Lui, sa che può comunicare, nonostante la grande folla che segue Gesù. Comincia a gridare: non ha intenzione di tacere, di restare inosservato tra l'indifferenza di tutti. Formula la preghiera che alimenterà, nel tempo, la fede di molti: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". La voce dei poveri è sempre stridula ai nostri orecchi, fastidiosa come il sibilo di una sirena. Non a caso "molti lo rimproverano perché taccia". Silenziare le persone scomode. Silenziare i fragili, coloro che gridano senza avere voce. E' lo stile dei potenti. Anche all'interno delle comunità cristiane. Il cieco Bartimeo grida ancora più forte. E' proprio vero che non esiste energia più dirompente di chi agisce spinto da un bisogno vero, dalla miseria della sua situazione, dalla solitudine della sua vita, dal rischio quotidiano di esistere dimenticato da tutti. Il suo grido è sempre il medesimo: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". E' la fede che alza la voce. E' la speranza che dà la forza. E' l'amore fiducioso in Gesù di Nazareth che passa nella nostra vita a mettere fuoco e ardimento, a dare dignità alla condizione di un disabile, qualunque sia la sua disabilità. Anche quella di non saper far valere la propria dignità. Gesù si ferma. È circondato da tanta folla. Ma deve fermarsi. In quell'uomo che grida è presente il mondo. Per Gesù, in quel momento, esiste soltanto Bartimeo, il cieco. Gesù applica una regola pastorale e umana di assoluta priorità. Quando ascolto, quando incontro, quando cerco di capire non esiste l'orologio. Il tempo, l'attenzione, la potenza è tutta destinata alla persona. Gesù si ferma e a quelli che rimproveravano il cieco perché tacesse, ordina senza esitazioni: "Chiamatelo!". Cambia l'atteggiamento di tutti. Chiamano il cieco, con un tono mite: "Coraggio! Alzati, ti chiama". La vita di Bartimeo è in un attimo un'altra. Getta via il mantello, tutto quello che possedeva per proteggersi giorno e notte, dal caldo torrido e dal freddo pungente. Balza in piedi. La sua vita mette le ali, anche se non vede. Va da Gesù. In Lui è la salvezza. Gesù gli ‘chiede di chiedere': "Che cosa vuoi che io faccia per te?". Gesù sa tutto di noi. Ama, tuttavia, la nostra confidenza, la fiducia incrollabile riposta sulla sua persona. "Rabbunì, che io veda di nuovo!". Ancora una volta scaturisce dal cuore del cieco la luce di una preghiera che ci riguarda. Abbiamo capito in quale baratro di oscurità ci stiamo muovendo? Giorno e notte sentiamo il bisogno di domandare a Gesù la luce del cuore, lo svelamento dei parametri di discernimento, mai scontati. La risposta di Gesù è soltanto coerente: "Va', la tua fede ti ha salvato". Imparare a credere per ritrovare la salvezza. Imparare a credere, come Bartimeo, per annunciare oggi la salvezza. Imparare a credere senza primi o secondi della classe. Insieme. Camminando insieme. Con la sola Luce che viene da Gesù, il Maestro. Forse riscopriremo anche la bellezza sublime della nostra vocazione. Ognuno la sua. Vedremo di nuovo e potremo seguire Gesù lungo la strada con motivazioni ritrovate e autentiche. E' il nostro sinodo. Gesù, ricordo numerosi passaggi della mia vita iniziati col pianto e conclusi nella gioia. Sono pietre miliari che, nella loro stabilità, mi richiamano continuamente la Tua fedeltà. Mi dimeno. Protesto. Discuto, a volte facendomi il sangue amaro. Immancabilmente ricompare la Tua Luce, Gesù, la tua melodia. Vuol dire che ti sto a cuore. Vuol dire che mi ami. Più di quanto io ami me stesso. Tu, Gesù, assumi la mia debolezza per aiutarmi a capire. Tu, Gesù, assumi la mia debolezza e la mia disabilità per aiutarmi a capire. E' come se volessi dirmi: "Di che cosa devi avere paura. Sono accanto a te, fragile come te, povero come te, avvilito - in certi momenti - come te. Sono tuttavia l'Amore. Non temere, piccolo mio!". Gesù, la mia "intelligenza" ritiene queste parole dure e incomprensibili. Sono un cieco che senza il bastone non cammina e senza i puntini del suo alfabeto non comunica. Eppure ho il coraggio, il fiato piccolo per gridare: "Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Non so più quante volte ti ho implorato con questa fede. Quando mi sono trovato a girovagare alla ricerca di Te. Quando ho dovuto lottare con i miei stati d'animo, con le paure, con l'aggressività interiore. Quando ho dovuto guardare, deluso, le mie mani nude e vuote perché mi ero illuso inseguendo progetti non tuoi. Tu, Gesù, mi hai sempre chiesto di dirti che cosa volessi da Te. Per tua grazia, non ho mai avuto paura di Te. Hai accettato le mie parole, il mio linguaggio, la mia sfrontatezza. Ti ho parlato come sapevo. Proprio come mi chiedevi Tu. Oggi voglio soltanto ripeterti fino a stancarti: "Gesù, che io veda. Che veda il tempo che vivo e lo interpreti come un atto di fedeltà a Te. Che veda il tempo che verrà. E' il tuo tempo. Non lo misuro. E' tuo. E lo hai dato a me. Che io veda, Gesù, per vivere nell'Amore, il mio tempo. Quello passato. Il presente. Il meraviglioso futuro". |