Omelia (02-11-2021) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Vivere non da fotocopie Fra i trapassati non ci sono soltanto coloro di cui tessiamo le lodi e per i quali pratichiamo il culto. L'esperienza comune del dolore e della morte ci ragguaglia innanzitutto del fatto che, a prescindere dalla dimensione ultraterrena di ciascuno, siamo consapevoli di dover morire e non possiamo dimenticarcene. Feuerbach diceva che qualsiasi animale sia consapevole di dover morire, questo è un uomo e concludeva che occorre accettare la morte come normale epilogo della vita, senza "rifugiarsi" (a suo dire) nella favola della vita ultraterrena. E' chiaro che la morte è incognita, interrogativo e di per sé vorremmo farcela amica; ciascuno lo fa con ricorsi differenti e per mezzo di svariate interpretazioni del fatto stesso di dover morire, ma una cosa è certa: che ci attenda un epilogo al termine di questo corpo mortale ne siamo consapevoli e per ciò stesso occorrerebbe non vivere da morti la vita. Vivere tutti i giorni come se dovessimo morire l'indomani è la via migliore per ribattere al dilemma increscioso del trapasso, soprattutto perché la consapevolezza di dover andarcene ci sprona a qualificare al meglio il nostro tempo terreno, per non dover guardare poi indietro constatando che abbiamo perso tempo. Nella fede cristiana siamo sedotti anche dall'idea che la morte è apertura alla vita eterna, ma anche che possiamo interagire con i nostri defunti quando essi non l'abbiano ancora raggiunta. La rivelazione infatti ci parla del destino comune di ogni singola persona ad incontrare Dio faccia a faccia subito dopo il trapasso, dell'aspettativa di una relazione personale con Dio alla quale tutti siamo destinati in ragione della stessa misericordia del Signore. Non tutti però a questo incontro definitivo di gioia e di festa accedono immediatamente: imperfezioni, nefandezze, vizi, precarietà e limitazioni alle quali siamo chiamati a far fronte tutti i giorni della nostra vita, producono che, come diceva il giovanissimo Beato Carlo Acutis, "nasciamo tutti come originali e trapassiamo come fotocopie", portando con noi le impronte della brutta copia che abbiamo fatto di noi stessi durante il cammino terreno. Purtroppo il peccato, anche quando rimesso e perdonato, lascia sempre residuati di imperfezione e di insufficienza anche dopo la morte fisica; le aberrazioni della vita presente, le strutture di peccato e di perversione che ci avvincono con subdole e ingannevoli promesse, contaminano in modo tale che anche dopo la morte rimane traccia di imperfezione e di precarietà, a meno che non abbiamo mondato noi stessi con il deliberato ricorso alla contrizione nell'Unzione degli Infermi. In parole povere, la nostra condizione di "fotocopie" e non di originali comporta che affrontiamo dopo il trapasso quella dimensione intermedia fra passato e Avvenire che definiamo Purgatorio. Proprio in esso però facciamo esperienza della misericordia e dell'amore di Dio, il quale ama l'uomo e fa di tutto per recuperarlo alla comunione con sé, anche al di là del suo corpo fisico: che esista un luogo di purificazione da lacune e imperfezioni temporali, che esso sia un terreno percorribile e soprattutto che il suo percorso possa essere abbreviato dalle preghiere e dai suffragi dei viventi, è caratterizzante dell'amore che Dio riserva a tutti e a ciascuno. Un Dio out out, ossia perentorio fra Inferno e Paradiso non sarebbe un Dio Amore quale la Scrittura ce lo descrive. Se si dice che Dio è Amore, ebbene lo è in senso pieno, nella sua interezza di misericordia e di spasimo per tutti noi e nel senso che la sua misericordia è commista a onnipotenza. In altre parole un Dio veramente Amore è capace di salvare l'uomo anche al di là della vita fisica, di valicare tutti i suoi demeriti e di superare ogni sua limitazione, non senza tuttavia che egli abbia almeno una possibilità peculiare di espiazione. Nell'esistenza del Purgatorio possiamo trovare la conferma di questo Amore e Misericordia che non è out out. Egli mette in condizioni ciascuno di purificarsi, di provvedere alle proprie manchevolezze e di estinguere ogni traccia di umana fragilità per poter noi correre verso la meta del Paradiso. Il Purgatorio è la possibilità che Dio da all'uomo di giungere alla sua pienezza restando uomo anche oltre la tomba, poiché l'esercizio dell'espiazione è speculare del fatto che, senza nulla omettere alla misericordia e alla grazia, l'uomo è in grado di esternare le proprie risorse di impegno e di capacità per conseguire ciò che Dio gli promette. Sempre il Purgatorio è l'occasione perché l'uomo possa continuare ad essere se stesso nella conoscenza della vita e della morte e soprattutto del fatto che l'amore le sovrasta tutt'e due (O. Wilde). Cosa si vive concretamente nella dimensione di purificazione ultraterrena? La Scrittura (apparentemente) tace su questo, non vi sono riferimenti espliciti su come si viva in Purgatorio. Santa Caterina da Genova ne offre una visione appropriata quando afferma che le anime purganti vivono uno stato perenne di ambivalenza fra gioia e dolore, di tristezza e di soddisfazioni, di contentezza e di delusione come quando una madre sa che uno dei due figli è stato elevato a Presidente ma l'altro è morto di droga... Insomma una dicotomia fra bene e male che da una parte ci fa ansimare, dall'altra ci fa sperare e guardare in avanti. Abbiamo però la certezza che Dio non abbandona le anime di coloro che si stanno purgando e li sostiene, le incoraggia e le eleva sempre più verso di sé man mano che procede il loro itinerario di purificazione. Per questo motivo non è inutile e anzi produttivo pregare per i nostri defunti (2Mac 12, 42 - 46) e accompagnarli nel loro cammino ascensionale per mezzo di suffragi, preghiere, penitenze avvalorate da concrete opere di carità che risollevano da molti peccati. Pregare e mettere in pratica la Parola di Dio è sostegno basilare alle anime dei nostri cari e non sarà mai abbastanza che tale prassi si intensifichi. Nella preghiera, nell'Eucarestia e nelle opere di misericordia siamo certi di guadagnare indulgenze per i nostri cari trapassati e allo stesso tempo di vivere la comunione con ciascuno di essi, sperimentando nella fede e nella speranza la che essi non mancano di esternarci la loro vicinanza e la loro compagnia. |