Omelia (07-11-2021) |
don Alberto Brignoli |
Senza troppi tintinnii Il tesoro del Tempio di Gerusalemme era davvero una bella intuizione, almeno nelle sue intenzioni. Le offerte che vi venivano "gettate" (si trattava probabilmente di una grande vasca, dove le monete che entravano erano viste da tutti i presenti e facevano pure un certo fragore) venivano utilizzate principalmente per due scopi: quello di mantenere la struttura del tempio (arredi, materiale per i sacrifici, sostentamento dei sacerdoti, ecc.) e l'aiuto nei confronti delle persone indigenti, in particolare quelle che si trovavano nella "Diaspora", ossia nelle comunità di religione giudaica sorte e operanti in territori stranieri, dove non c'era un tempio e nemmeno un luogo di culto e dove - essendo in situazione di migrazione - spesso la gente soffriva situazioni di estrema povertà. Le categorie maggiormente colpite dalla povertà erano quelle dove il capofamiglia, spesso unico lavoratore, era venuto a mancare: parliamo delle vedove e degli orfani. Così come si trattava di una nobile istituzione, altrettanto si deve dire che pure intorno all'apparato del "tesoro" del Tempio si assisteva a fenomeni di corruzione: la cassa era gestita in maniera arbitraria e gerarchica dalla classe sacerdotale, nella quale molti puntavano agli interessi della classe stessa, se non addirittura a quelli personali. Era, quindi, anche abbastanza frequente notare ricchi personaggi appartenenti alle varie "caste" presenti tra le autorità religiose, far risuonare la vasca del tesoro del Tempio con il fragoroso tintinnio delle monete che essi vi gettavano: maggiore era il tintinnio, maggiore era lo stupore e la magnificenza verso "cotanta generosità" da parte della gente, la quale non mancava di tessere le lodi di questi magnanimi benefattori, ritenuti spesso gente santa e benedetta da Dio perché - non dimentichiamolo - la ricchezza materiale era vista dal Giudeo come un segno della benedizione di Dio entrata nella vita santa e giusta di una persona e della sua famiglia. Una mentalità da noi superata, forse anche grazie alle invettive che Gesù non risparmiava ai farisei e alle autorità religiose del suo tempo, sempre intenti a guardare più a ciò che entrava nel tesoro del Tempio che a ciò che ne usciva, ovvero ad accumulare più che a donare. E tra gli atteggiamenti poco chiari e anche contradditori che giravano intorno alle donazioni nel tesoro del Tempio, c'era pure quello legato alle categorie che dovevano beneficiarvi: vedove e orfani non è che dovessero astenersi dal contribuire al tesoro del Tempio, tutt'altro. Anche perché spesso erano "costretti" a farlo loro malgrado: non era infrequente, infatti, che alla morte del coniuge, la vedova venisse visitata dai meno scrupolosi tra i farisei e i funzionari del Tempio, i quali le assicuravano che l'avrebbero difesa in ogni ambito della vita sociale, politica e giudiziaria - nella quale aveva perso ogni diritto - a condizione che essa e i suoi figli avessero lasciato a loro amministrare il patrimonio rimasto a disposizione come lascito del defunto marito. E Gesù non usa mezzi termini, quando parla di questi come gente che "divora le case delle vedove": lasciavano alle vedove il necessario per il sostentamento quotidiano, e a poco a poco si appropriavano di tutto il resto a cambio di presunti appoggi e favori che spesso non arrivavano. Il fabbisogno quotidiano corrispondeva a quel famoso "denaro" o "soldo" che valeva quanto lo stipendio giornaliero di un operaio, cioè quanto strettamente necessario per il cibo di ogni giorno. E allora, Gesù non esagera quando dice che quelle due monetine (del valore di un soldo) gettate senza alcuna possibilità di far rumore - tanto erano leggere - dalla povera vedova nel tesoro del Tempio rappresentano tutto quello che aveva per vivere, perché era il suo fabbisogno giornaliero. E qui sta la grande contraddizione: una donna che avrebbe dovuto solamente attingere, più che apportare, a ciò che veniva gettato nel Tempio, vi mette ciò che le era rimasto per vivere quel giorno, perché il resto era stato divorato da coloro che, invece, quelle monete gettate nel Tempio (da loro con tanto fragore) avrebbero dovute usarle per sostenere la vedova e i suoi figli. La vedova avrebbe potuto (e a ragione) pensare di tralasciare di dare la propria offerta, perché di fatto quella offerta doveva legittimamente tornare a lei: ma c'è un aspetto nella sua vita - e si chiama condivisione solidale - che la fa pensare alle altre vedove come lei che della sua offerta avrebbero potuto beneficiare. Queste cose non le capiscono le persone talmente ricche da non sapere neppure quanti ne hanno in tasca (magari a volte non sapendone neppure la provenienza, che quindi diviene, come si dice, "dubbiosa"); le capiscono le persone che sanno cosa significa avere poco e averlo sudato, sapendo bene come è stato sudato e chi avevano al loro fianco quando lo hanno sudato. Da lì nasce la generosità e la condivisione. No, non sono frasi fatte né affermazioni obsolete quelle che spesso si sentono dire: "Una volta erano più poveri, ma c'era molta più solidarietà e molta più condivisione verso il bene comune". E quanto è vero questo in relazione al "tesoro del Tempio" di noi cristiani, ovvero a tutti quei beni economici, culturali e strutturali di cui tutte le Chiese sono o sono state ricche. Se abbiamo chiese così belle, oratori così grandi, edifici e strutture che spesso ora diventano difficili da gestire ma che rappresentano un patrimonio e una ricchezza incommensurabile e che sentiamo profondamente nostre, non è certo per la generosità dei grandi ricchi benefattori - a cui spesso anche noi pastori ci inchiniamo con eccessiva reverenza - che possono anche aver dato cifre significative e dal tintinnio molto forte, ma l'hanno fatto "una tantum" e magari facendole risuonare due, tre, quattro volte nella vasca del tesoro (sai, a qualcuno piace far sapere di essere generoso...); se le nostre comunità sono ricche, lo sono per il silenzioso e sofferto apporto di tante persone umili e senza grandi possibilità economiche; lo sono per la costante, sia pur misera, capacità di tante umili famiglie di dare qualcosa alla Chiesa appena fosse stato loro possibile; lo sono per il silenzioso, semplice e costante lavoro di volontariato di chi, senza far rumore intorno a sé, certe strutture ha contribuito e continua a contribuire per mantenerle vive ed efficienti; lo sono perché chi crede nella loro importanza e nell'utilità del bene comune lo fa a ragione veduta, per avere a sua volta ricevuto molto. E poco importa di essere tacciati di amore verso il proletariato, se facciamo apertamente discorsi di questo tipo: di sicuro, di amore, qui, ce n'è parecchio. Ed è l'amore di chi, pur avendo poco, fa a metà con gli altri anche di quel poco. Almeno, così, non ci sarà uno che non ha nulla e l'altro che ha poco; avranno poco entrambi, ma saranno sempre in due. E una comunità d'amore si costruisce almeno in due: soprattutto, lo si fa senza preoccuparsi del roboante tintinnio di tante monete superflue. |