Omelia (14-11-2021)
padre Gian Franco Scarpitta
Ciò che resta del nostro tempo

Che ogni cosa abbia la sua origine, perduri e che debba terminare è scontato e testimoniato dalla scienza oltre che dalla storia. Ancor prima che l'uomo dominasse il mondo, ben altre specie viventi hanno vissuto sul nostro pianeta costituendo la specie prevalente, come ad esempio i dinosauri, che nelle loro razze e specie multiformi hanno imperato nel mondo per oltre 150 milioni di anni, sottomettendo e dominando tutti gli altri mammiferi esistenti. E' quasi certo che la loro estinzione di massa sia stata determinata dall'impatto di un consistente asteroide sulla superficie terrestre, ma anche senza alcun fenomeno astrale si sarebbero comunque estinti con le variazioni climatiche già in atto. Così pure determinate specie vegetali e acquatiche un tempo esistenti e imperanti, oggi sono solo un vago reperto fossile. Per secoli ha dominato il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, ma si è estinto nei primi anni del 1800. Cosi pure la Roma Caput Mundi e altri sistemi. Tutto ha inizio e tutto verte verso una fine. Anche la storia umana, cominciata secondo la scienza con la specie homo sapiens quasi 200000 anni or sono, è destinata a un epilogo. Tutto passa, si trasforma e deperisce. Anche l'uomo è una realtà precaria e provvisoria, una delle tante specie viventi contingenti e non necessarie, che oggi esistono e domani potrebbero anche non esserci. Il pensiero della nostra provvisorietà non può non orientarci verso l'umiltà e la semplicità di vita, allontanandoci dalla brama di potere e di successo, poiché appunto è già successo che a chi era stato dato tantissimo, tutto è stato tolto ed è evidente che nulla ci appartiene. Anche l'uomo passa.
La rivelazione di Dio però ci assicura che qualcosa resterà in eterno e che anche noi possediamo un incipit di eternità che avrà il suo sviluppo futuro. Le tre cose che rimangono fra tutte sono "la fede, la speranza e la carità"; e ogni imperfezione terrena scomparirà nel momento in cui sopraggiungerà ciò che è perfetto"(1Cor 13, 10 - 13). L'uomo, seppure immeritevole e limitato, nella persistenza del suo tempo presente, è destinato ad un epilogo storico che si configurerà con un incontro definitivo personale con il Signore della sua gloria. In altre parole, sempre nell'ottica della rivelazione, la fine dei tempi suggerisce che al limitare della storia umana si apra il traguardo dell'incontro con Dio, che in Gesù Cristo si rivelerà all'uomo nella forma definitiva, come colui che viene come giudice e salvatore universale. Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto uomo, è infatti "Colui che era, che è e che viene"(Ap 1, 4); Cristo è il passato, il presente dell'uomo, ma parimenti è anche il suo avvenire, del quale egli attende il ritorno glorioso e verso il quale si incammina in questo frattempo.
Per questo motivo, ciò che leggiamo nelle pagine odierne di liturgia è l'elemento "escatologico" della nostra fede, quello cioè relativo alle cose "ultime" e "finali" della nostra vita presente, nonché al traguardo definitivo della nostra storia. La nostra fine è Cristo, così come Cristo è la nostra Origine nonché il nostro Oggi.
L'argomento di cui leggiamo nel Vangelo, che Marco mette in bocca a Gesù, non è un assunto nuovo o inventato: Gesù ne parla infatti mentre i suoi discepoli ammirano le sontuosità architettoniche del tempio di Gerusalemme e provvede a metterli in guardia: voi sarà una distruzione del tempio e di esso "non rimarrà pietra su pietra"(Mc 13, 1- 4), delineando ai suoi interlocutori una serie di eventi catastrofici quali l'avvento di falsi profeti, l'incedere di terremoti e altri eventi cosmici e la persecuzione ostinata dei credenti in Cristo. Quanto alla fine del tempio, essa effettivamente avverrà nel 70 d. C, accompagnata dalla persecuzione dei cristiani ad opera di Nerone; quanto alla fine del "tempo£ presente, cioè della storia umana, Gesù rivela quanto Daniele aveva anticipato intorno alla venuta di Michele (il cui nome significa "chi è come Dio"): egli stesso tornerà nella gloria per instaurare il trionfo definitivo sul male e sulla morte nel cosiddetto "Giudizio Universale ultimo". Come avverrà questo avvento finale epilogante della nostra storia? Esattamente non lo sappiamo. Sia Daniele che Marco lo descrivono per mezzo di immagini fascinose e apocalittiche quali la caduta degli astri dal cielo e l'ottenebramento del sole e della luna o l'arrivo del Figlio dell'Uomo sulle nubi del cielo; si tratta però di elementi simbolici, allusivi all'irrompere di una realtà nuova su quella esistente per la quale tutto ciò che adesso esiste sarà trasformato al punto da escludere ogni paragone. Ciò che sappiamo è che comunque saranno definitivamente messi a tacere i nemici di Cristo, i quali anzi verranno posti sotto i suoi piedi (Eb 10, 13); il maligno non avrà più il potere di adesso sulla terra e il bene avrà il sopravvento sul male.
Il momento cronologico in cui quest'evento si realizzerà non soltanto non ci è dato conoscerlo, ma neppure è necessario che ce ne informiamo. Solo il Padre ne sa il vero momento e neppure al Figlio (nonostante sia della stessa sostanza del Padre) è dato saperne, perché la conoscenza del giorno o dell'ora incuterebbe nel cuore dell'uomo un'ansia banale e melense che distoglierebbe dall'impegno terreno. Sappiamo soltanto di dover vivere nell'attesa che tale incontro con Gesù Ultimo si realizzi; un'attesa che non si configuri nei termini di ansia, ma di speranza. Cioè di predisposizione fiduciosa che estrometta ogni paura perché nel nostro frattempo mettiamo in atto le sole tre cose suddette che restano per sempre: la fede, (appunto) la speranza e la carità. Attendere la venuta nella gloria vuol dire infatti sperare, aver fiducia che ciò che desideriamo si realizzerà a nostro vantaggio e che ogni cosa presente avrà il suo culmine in un futuro di gloria e di positività. La speranza è l'utilizzo proficuo del tempo che abbiamo a disposizione perché non abbiamo a rimpiangere di averlo perduto; è l'impegno con cui concretizziamo ciò di cui parliamo per astratto, l'aspettativa che ogavrà fine quanto ora ci disturba e che avrà inizio quello che ora ambiamo come meta irraggiungibile. La speranza pertanto coinvolge la nostra esistenza e ci avvince nell'ordinario personale e collettivo di tutti i giorni: "Tutta la predicazione cristiana, tutta l'esistenza cristiana e la Chiesa stessa nel suo insieme sono caratterizzate dal loro orientamento escatologico "(Moltmann) ma aspettare non vuol dire tentennare o esitare con le mani in mano. La speranza è contrassegnata dalla fede che si rende operativa nella carità. I poveri ne sono i primi assertori vivendo essi la caparra di ciò che in pienezza avranno in futuro e al medesimo tempo ci invitano a sperare nell'esercizio dell'amore e della solidarietà affinché quello che alla fine realizzeremo sia un vero e proprio incontro.