Omelia (28-11-2021) |
Michele Antonio Corona |
La prima domenica d'avvento corrisponde anche al primo giorno dell'anno liturgico. Eppure il vangelo che ci viene proposto nei tre anni parla sempre della fine attraverso un linguaggio ricco di immagini catastrofiche e definitive. Non di rado, chi spiega il vangelo deve fermarsi a tranquillizzare gli uditori ed evitare la paura. Questo fa parte della cultura, dell'approccio del nostro tempo, della sensibilità che abbiamo. Parlare di fine non ci piace, ricordarci che il nostro tempo è limitato ci sembra troppo drastico, soffermarci a riflettere sulle cose ultime è diventato sconveniente. Così, si cerca di edulcorare il tutto, con affermazioni del tipo: "Gesù non ci vuole mettere paura", "stiamo sereni", "la fine del mondo è ancora lontana". Frasi che, forse rasserenano, ma nella maggior parte dei casi fanno almeno sorridere, poiché farci dimenticare che abbiamo una fine - che si avvicina ogni giorno di più - non è sapiente. Non occorre essere drastici, pessimisti o perentori, ma solo realisti. Per questo occorre fare prima un passo indietro, ricordando che il testo cerca di spronare i suoi ascoltatori a prendere una decisione immediata e durevole. La fine è di fronte non per atterrire, sebbene sia presentata in modo drammatico e pragmatico, ma per incoraggiare a fare una scelta, a decidersi, a determinare la propria condotta. Non dimentichiamo che il fare, nel giudaismo, era importante, determinante, centrale: "Tutto ciò che il Signore ha ordinato noi lo faremo" (Es 19,8; 24,3.7). l'Antico Testamento ci ha abituato alla logiche delle due strade: vita e morte, maledizione e benedizione, successo e dannazione. Per l'uomo biblico non ci sono alternative, non ci sono purgatori, non ci sono limbi. O sei credente o non lo sei; sei discepolo oppure no; sei fedele o infedele. Gesù, nella sua assoluta comprensione e misericordia, non offre alternative nei suoi incontri: "va' e non peccare più", "lascia tutto e seguimi", "vendi tutto quello che hai", "chi ama la sua vita la perderà", etc. Il brano di Luca, in sinfonia con la prima lettura tratta da Geremia, ci presenta l'esigenza della radicalità, intesa come decisionalità nello scegliere responsabilmente e, dall'altra, nell'essere radicati nel terreno giusto. Non ci sono alternative possibile, né cunicoli salvavita. Anzi, "la liberazione è vicina" nel momento in cui tutto lo sconvolgimento della vita, della storia, della fede si attuano. Il cristiano che vuole vivere un'esistenza protetta, ammorbidita, analgesica, incartapecorita può solo aver paura della radicalità di Gesù. Così, diventa centrale il monito "ad alzare il capo", in tutti i suoi sensi possibili. In primo luogo, vivendo con coscienza e responsabilità la propria vita, senza rischiare di nascondersi ed evitare ciò che dobbiamo vedere di fronte a noi. In seconda battuta, occorre ricordare la possibilità di guardare oltre il piccolo orizzonte per tendere alla lungimiranza. Oltre il proprio orticello verso i grandi spazi. Infine, alzare lo sguardo per vedere chi mi sta di fronte, chi mi viene incontro, chi cerca il mio sguardo. La dimensione comunitaria è fondamentale nel momento in cui si presentano le difficoltà, le prove, le situazioni che sembrano proiettarci alla fine. |