Omelia (02-01-2022)
don Maurizio Prandi
Dio si dice attraverso la nostra umanità

Parto da quanto ieri, primo giorno dell'anno ci dicevamo riguardo alla mangiatoia e al Bambino, due segni importanti circa il metodo scelto da Dio per raccontarsi, per dirsi raggiungibile. Lo ripeto allora i pastori riconoscono Dio perché nasce proprio come i loro figli e nasce in una condizione, quella della mangiatoia, che loro conoscono bene, che non è quella di una reggia o di un tempio o di una cattedrale.

Credo che questa intuizione ci possa mantenere nella responsabilità di porgere Dio così come l'altro lo può vedere, lo può riconoscere, e lo possa così incontrare. Ci siamo già detti questo due mesi fa commentando il vangelo di Giovanni :chi vede il Figlio dell'uomo e crede in lui ha la vita eterna; certo credere, ma non è un credere magico, perché prima qualcuno ti ha mostrato il volto di Dio. Mostrare il volto quindi, renderlo per così dire fruibile.

Il brano di Vangelo che abbiamo ascoltato ci dice che il mestiere di Gesù è stato ed è proprio questo: farci vedere Dio, farci conoscere Dio, rivelarci chi è Dio, farcene (traduzione letterale e difficile), l'esegesi; Gesù ci dice che Dio è raggiungibile, incontrabile innanzitutto perché si è fatto carne.

Carne. (leggevo in un bel commento di don P. Bacigalupo), è traduzione di una parola greca che indica tutto ciò che è umano. Il Verbo, (logos in greco), che possiamo tradurre con parola ma anche con progetto, dice tutto il desiderio di Dio di non di rimanere chiuso in se stesso, ma di comunicarsi, raccontarsi, mostrarsi, e per fare questo ha scelto ciò che è umano. L'umano è il primo luogo dove Dio abita. Ecco che una volta di più Dio ci viene incontro in ciò che ben conosciamo (in questo caso la nostra umanità), ci viene incontro lì, anche se può far fatica, perché l'umano, lo sanno bene le nostre lontananze, da un certo punto di vista rappresenta ciò che c'è di più distante da Dio. Fatica certo, ma anche, in questi giorni del tempo di Natale, meraviglia perché quel nostro umano, che spesso ci sembra ben poca cosa, per la sua inadeguatezza, fragilità o debolezza è il primo spazio, il primo luogo che Dio ha scelto per rivelarsi. Senza la mia e la nostra umanità Dio non può dirsi.

Mi viene in mente quanto ascoltato da don Angelo Casati che ci ricordava un giorno che siamo abituati al: "Si fece uomo". Il vangelo invece è molto più netto (ce lo ricordava il nostro vescovo la seconda domenica di Avvento) e usa il termine "carne" che significa l'uomo nella sua totale debolezza. Perché farsi uomo può confondere le idee! Poteva farsi uomo nel segno della superiorità, della smisuratezza, della potenza, dell'invincibilità, della sicurezza. Invece si fece carne. E dunque nel segno della fragilità, della debolezza, della piccolezza, della possibilità di essere ferito, di morire. Si fece carne perché ognuno di noi lo potesse sentire appunto vicino, riconoscibile compagno di cammini, noi che possiamo essere feriti dalla vita, noi che moriamo. Perché in ogni fragilità umana, nostra e della natura, potessimo scoprirlo presente. E perché ci prendessimo cura di lui nei deboli, nei poveri, nei non garantiti. Si è fatto carne, si è fatto carne in una umanità debole, perché tu non ti scoraggiassi davanti alla tua debolezza, davanti alla tua fragilità, davanti alla tua insicurezza; e, a tua volta, dessi fiducia e risollevassi a speranza chi sulla propria pelle ne porta i segni ed è tentato di disperare.

Qui allora riprendo (e ancora una volta ringrazio per questo cammino), quello che nella condivisione della Novena diceva Valentina che ha sottolineato la parola speranza, sì, perché un Dio che decide di attraversare la nostra carne attraversa anche i nostri rimpianti, le fatiche, gli obiettivi non raggiunti e quando siamo presi dallo sconforto possiamo pensare che anche Gesù è passato di lì. Oppure quando ci sentiamo inadeguati o abbiamo paura di essere soli, ecco, non sono condizioni sconosciute a Dio, che in Gesù le ha vissute. Allora per tutte le volte che siamo tentati di dire: tanto oramai ecco che Dio, che senza la mia e la nostra umanità non può dirsi, mi dona la speranza che il Natale sia un momento di rinascita e che con la mia, la nostra unicità, possiamo dare tanto agli altri e a noi stessi.

Speranza perché mi sembra quasi di ascoltarlo Gesù che ci ricorda: sì, anche io stavo dicendo tanto oramai, lo dicevo perché ero nudo, avevo fame, avevo sete, ero ammalato, ero straniero, senza casa, carcerato e mi siete venuti incontro, mi avete risollevato.

Speranza perché carne sono la donna e l'uomo che si amano ci ricorda il libro della Genesi, perché Dio senza questo amore non può dirsi e noi non possiamo capirlo.

Speranza perché il vangelo ci racconta

- di un Dio che è padre e che esce e va incontro ai suoi figli,

- di un seminatore che tenta di seminare in terreni impossibili come la strada, le pietre e i rovi,

- di un pastore che rischia di perdere l'intero gregge solo per andare a cercare e salvare una pecora che si è smarrita.

Speranza allora perché l'umano faticoso e gioioso di un genitore o di un lavoratore diventa racconto del volto di Dio.

Speranza perché se Dio sceglie l'umano, che da un certo punto di vista rappresenta ciò che c'è di più inadeguato per mostrarlo, questo vuol dire innanzitutto la fiducia che Dio ha nei confronti di ciascuno di noi.