Omelia (20-03-2022) |
diac. Vito Calella |
Significati di “conversione” contro la morte spirituale La morte fisica ci avverte sul pericolo della morte spirituale Ecco un elenco di tanti eventi della nostra storia personale e dell'umanità, che ci pongono di fronte alla fragilità della nostra condizione umana: la pandemia, il cancro, un incidente stradale, le inondazioni o le siccità, le sconvolgenti immagini della guerra, con la sua scia di totale distruzione e morte. Oggi, come nel tempo storico in cui visse Gesù, accadono eventi che diventano occasione per riflettere sul valore di un'esistenza santa oppure sullo spreco di questo meraviglioso dono della nostra vita, perché abbiamo il coraggio di confrontarci con la realtà della morte. La morte fisica è il giusto limite verso cui tutti siamo diretti. Quando moriremo altri ci ricorderanno per il bene che abbiamo seminato o, purtroppo, per il male che abbiamo causato. Per ciascuno di noi, il passaggio dalla vita terrena a quella eterna, attravesando la soglia della nostra morte fisica, è il momento della valutazione finale di tutte le scelte che abbiamo compiuto giorno dopo giorno. Scopriremo se durante la nostra fugace vita terrena eravamo già morti spiritualmente, perché abbiamo sprecato molte occasioni di conversione. Oppure possiamo presentarci davanti al Padre, unito al Figlio nello Spirito Santo, con un cesto pieno di fichi deliziosi, che rappresenteranno tutte le belle esperienze di cambiamento, di crescita spirituale e di opere fatte con gratuità di amore e servizio generoso. Il Cristo risorto, di fronte ai due eventi storici, quello della violenta repressione degli ebrei ribelli al potere romano e quello di diciotto persone uccise inaspettatamente dal crollo della torre di Siloe, ci invita esplicitamente a vivere esperienze di conversione, mentre pellegriniamo in questo mondo: «Se non vi convertite, morirete tutti allo stesso modo!» (Lc 13,3b.5b). Gesù ci avverte del pericolo della morte spirituale, che può avvenire prima della nostra morte fisica. Cosa significa «convertirsi» per evitare la nostra morte spirituale? Conversione è passare dall'aver paura di un Dio vendicatore e contabile all'abbandonarci al suo amore fedele e misericordioso che non ci abbandona mai. Molte persone sono state educate, fin dall'infanzia, a pensare che Dio è come un contabile che annota tutte le scelte che ognuno di noi fa. Se obbediamo ai suoi comandamenti, Dio ci benedice con la salute, con un lavoro che ci porta prosperità economica, con una vita felice di relazioni familiari e sociali, in una situazione di pace e giustizia. Se disobbediamo ai suoi comandamenti e alle leggi morali della Chiesa, Dio è pronto a punirci con la malattia, con disgrazie improvvisate, ci punisce anche con la morte prematura. Questa mentalità religiosa, di benendizione o punizione divina di fronte alle buone o cattive azioni umane, guidava la vita di quegli uomini che «riferirono a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici [nel tempio di Gerusalemme]» (Lc 13,1). Nella loro mente quei Galilei furono sterminati perché «erano più peccatori di tutti gli altri Galilei» (Lc 13,2). Gesù è contrario a questo modo di immaginare Dio, inteso come vendicatore e contabile. Rispose loro: «No! Io vi dico!» (Lc 13,3a). E per rafforzare questa posizione disse chiaramente che «i diciotto che morirono quando cadde la torre di Siloe» (Lc 13,4) non morirono certo perché erano più peccatori di tutti gli abitanti di Gerusalemme. Come passare da questa immagine di un Dio vendicatore e contabile, che matematicamente punisce e salva i peccatori e i giusti, a un'esperienza di prossimità del Padre, che ci viene incontro con la sua misericordia e fedeltà? Ecco che ci viene in aiuto il racconto della vocazione di Mosè, che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Mosè era fuggito dall'Egitto perché ricercato come assassino di un egiziano che aveva maltrattato un ebreo, oppresso nella condizione dei lavori forzati (cfr Es 2,11-14). Si rifugiò nella regione di Madian, ospite di un sacerdote. Quest'ultimo divenne suo suocero, poiché Mosè sposò sua figlia Sefora (cfr Es 2,15-22). Viveva bene, lontano da conflitti e impegni a favore del riscatto delle sofferenze del popolo a cui apparteneva. Sposato, tranquillo e sicuro nella sua condizione di pastore di greggi, un giorno, sul monte Oreb, fu attratto da «una fiamma di fuoco che usciva di mezzo a un roveto» (Es 3,2). Quel roveto ardente d fuoco continuava ad essere rispettato come albero, poiché non veniva bruciato e distrutto. Quell' «Angelo del Signore» rappresentava l'amore misericordioso e fedele di Dio che viene ad abbracciare, avvolgere il corpo fragile e peccaminoso di ogni essere umano, liberandolo da tutti i suoi peccati e mandandolo in missione in nome di questo stesso amore. In quella visione Mosè ricevette la chiamata a tornare in Egitto per diventare il liberatore del popolo d'Israele da quella umiliante schiavitù, perché Dio «vide l'afflizione del suo popolo e udì il suo grido, ne conobbe le sofferenze» (Es 3,7). E quando Mosè chiese quale fosse il nome di Dio che lo mandava, ricevette come risposta il significato più profondo delle quattro lettere ebraiche che si potrebbero pronunciare come "Jhawéh", che significano «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14). Ma in lingua ebraica questa frase significa: «Ci sono che ci sono sicuramente nella tua vita!». Gesù è venuto per parlare con saggezza e insegnarci che il Padre ci coinvolge nella fiamma del suo amore misericordioso e fedele, rispettando la nostra libertà e la nostra condizione di persone fragili e peccatrici, continuando ad essere presente nel bene e nel male della nostra vita fino al nostro ultimo respiro. La prima esperienza di conversione è scoprire che, nella nostra povertà, siamo amati dal Padre unito al Figlio nello Spirito Santo. Una volta completato questo passaggio, seguono le altre conversioni. Conversione è passare da un'esperienza superficiale dei sacramenti alla loro pratica rinnovatrice e liberatrice per la nostra vita. L'evangelista Giovanni ci presenta Gesù come l' «Io sono», che ci rivela la verità del nostro essere già amati e salvati dal dono dello Spirito Santo, riversato nei nostri cuori grazie all'evento redentore e unificante della sua morte e risurrezione. Quando scopriamo la presenza di questo amore divino, che sempre ci circonda e ci accompagna, siamo chiamati a vivere questa scoperta - attraverso il battesimo, già prefigurata dal passaggio del popolo d'Israele nel Mar Rosso; - attraverso la comunione eucaristica, già prefigurata dal cibo della manna del deserto offerto ogni giorno al popolo liberato; - attraverso l'acqua viva dello Spirito Santo, che opera in noi santificando la nostra vita, se decidiamo di aggrapparci alla roccia dell' incontro orante con la Parola di Dio, soprattutto alla roccia del Vangelo del Regno predicato da Gesù. È il senso della catechesi dell'apostolo Paolo, ascoltata oggi. La mormorazione degli Ebrei liberati dall'Egitto oggi potrebbe rappresentare la noncuranza di tanti cristiani che hanno la Parola di Dio, hanno ricevuto i sacramenti dell'iniziazione cristiana, e continuano a sprecare queste occasioni di santificazione che permetterebbero loro di vivere in un costante atteggiamento di conversione morale. Conversione è passare dalla sterilità di testimonianza di buone opere di misericordia all'abbondanza di frutti fertilizzati dal dono della Parola e irrigati dall'azione dello Spirito. La parabola del fico, che non ha mai dato frutti, e per questo infastidisce il proprietario del campo, è un monito per valutare il nostro modo di vivere in modo coerente i sacramenti dell'iniziazione cristiana (battesimo, cresima, Eucaristia) e la qualità del nostro incontro orante con la roccia della Parola di Dio che attiva in noi la forza trasformatrice dello Spirito Santo. La nostra fede in Gesù Cristo unito al Padre nello Spirito Santo è dimostrata dalla pratica effettiva delle opere di carità. Tali opere corrispondono ai «fichi» che la nostra vita cristiana, paragonata al fico, dovrebbe produrre. Ancora una volta la pazienza del Padre è incredibile. Se continuiamo ad essere come un fico senza frutti, facciamo buon uso del fertilizzante della Parola del Padre, nostro contadino, e dell'acqua dello Spirito Santo con cui siamo continuamente annaffiati. Chiediamo la grazia dell'umiltà e della vigilanza per essere in continuo atteggiamento di conversione! La parola di Dio, attraverso l'apostolo Paolo, ci avverte: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Ci sono cristiani che si considerano più giusti degli altri perché sono convinti di obbedire a tutte le leggi canoniche della Chiesa e memorizzano i comandamenti delle Sacre Scritture, avendo il coraggio di giudicare gli altri fratelli e sorelle con una storia di vita più disordinata, più complicata, più sofferta e segnata da tante infedeltà e peccati. È lo stesso atteggiamento dei farisei del tempo di Gesù, che giudicavano chi era giusto e peccatore, puro e impuro, incluso o escluso dalla comunità, in nome della stretta obbedienza alla Legge. Queste persone non possono vedere la dimensione della misericordia, della pazienza, della tenerezza del Padre, che conosce più a fondo ciò che accade nella coscienza di ogni essere umano, anche nel peccatore più incallito. Tutti possiamo avere una ricaduta, un errore, nonostante la nostra fedeltà alla preghiera e la partecipazione attiva nella nostra comunità cristiana. Chiediamo quindi al Signore la grazia dell' umiltà e della vigilanza per essere in un continuo atteggiamento di conversione. |