Commento su Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56
Commentando l'Evangelo della Quinta domenica di Quaresima, dicevamo che il pensiero occidentale e la modernità si sono costituiti e sviluppati sulla concezione dell'Io come punto di riferimento essenziale: un percorso che porta alla rivalutazione della soggettività. Rivalutare il soggetto non è affatto negativo, a condizione però che egli entri in dialogo fecondo con l'altro. Se manca questa condizione, se ogni altra presenza viene considerata un ostacolo alla propria autorealizzazione, abbiamo come conseguenza un Io centrato su se stesso e capace solo di creare un pensiero autosufficiente. Purtroppo la cultura dell'Occidente avanza lungo sentieri che hanno all'orizzonte una visione dell'individuo come ombelico del mondo e che si poggia non sull'essere ma sull'avere. Si pensi solo allo «zar» russo che, proprio in questi giorni, per alimentare la sua sete di potere, è diventato lo spietato, crudele massacratore di uomini, donne e bambini. L'Io finisce col diventare imperialista, padroneggiante, arrogante.
Le letture di questa Domenica delle Palme ci offrono una visione (una visione intesa come speranza) radicalmente diversa. Se leggiamo la Passione secondo Luca, senza lasciarci coinvolgere da una chiave di lettura emozionale, ma cercando di interiorizzare i sentimenti che Gesù ha vissuto in tutta la sua vita, per sintetizzarli nell'evento drammatico della passione e della morte, notiamo che il Maestro ha deposto - rinunciandovi per sempre - all'arroganza dell'Io per diventare il salvatore di tutti (ma proprio di tutti, compreso nostro fratello Giuda, e l'ostinato «ladrone» che rifiuta il pentimento). Ma nelle letture di oggi troviamo addirittura una teorizzazione di questo cammino. Scrive Paolo alla comunità di Filippi, in uno dei primi grandi testi teologici (al quale è però opportuno affiancare una lettura antropologica) molto importante anche per le possibili implicazioni ai temi della coppia e della famiglia:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: "Gesù Cristo è Signore!", a gloria di Dio Padre» (Fil 2,5-11).
Alcuni stimoli, tra i molti alztri possibili.
Gesù non è solo un modello da imitare da parte di ogni cristiano (e di ogni essere umano). Lo sforzo che soprattutto dobbiamo fare - come singoli, come coppia, come famiglia - è quello di interiorizzare (avere, sentire in noi) gli stessi suoi sentimenti. E quali sono questi suoi sentimenti? Ecco: pur essendo di natura divina (cioè pur essendo nella condizione di Dio, pur essendo Dio) egli considerò questo suo essere Dio come un dono e non come un privilegio, un tesoro geloso (ma sarebbe più corretto dire «una rapina», come sono tutti i privilegi) e dunque, come dice il testo greco, eautòn ekénosen, si annichilò, si annientò, si spogliò, spogliò e privò se stesso, si «svuotò» di questo essere uguale a Dio, potremmo anche dire, collegandoci alla premessa iniziale, «depose il suo Io», assumendo la condizione di servo, e quindi, in questo senso, venendo riconosciuto come uomo. Il vero uomo è il servo di tutti (non lo schiavo, servo di un padrone terreno che lo sfrutta, ma il servo, colui che si mette a disposizione degli altri. La condizione vera di ogni uomo e di ogni donna è il servizio; l'essere umano è il «servo» di Dio e - in termini filosofici e laici - il «servo» dell'umanità: ma le due posizioni a ben vedere coincidono, perché nell'Evangelo l'amore di Dio e l'amore del prossimo non sono disgiungibili. L'amore di Dio è l'amore del prossimo, l'amore del prossimo è l'amore di Dio. E Gesù umiliò se stesso (come non vedere in questo «umiliarsi» la deposizione dell'Io, dell'Io arrogante?, si «incarnò», cioè divenne «uomo» e «servo», proprio per obbedienza umile) fino alla morte e addirittura («e», nel testo che abbiamo letto, ma in latino «autem») fino alla morte di croce, che non è certo la morte che si confà all'uomo, ma è la morte dello schiavo.
Si tratta, come afferma Franco Rodano in Lezioni di una storia possibile, Marietti, Genova 1986, pp. 65-94, di un superamento di quella «ideologia signorile» (che pure staziona ancora dentro di noi, ma anche nella nostra società) attraverso la proposta di un ideale di uomo «diverso», quindi di una nuova concezione antropologica. Una saldatura molto feconda tra l'antropologia e la teologia.
Ma c'è un'altra conseguenza vitale importante: se la condizione «ideale» dell'uomo e della donna è quella di «servi», e se la condizione di «servo» è contraddistinta da una condizione di «limite» (limite di potere, anche di «cultura», impossibilità di accedere ai beni che si desiderano, fragilità...), si comprende come la tensione verso l'Assoluto sia inattingibile se non attraverso la consapevolezza e l'accettazione di questo limite. Come a dire: solo se saremo «servi» gli uni degli altri, solo in una condizione accettata e costantemente perseguita di servizio, potremo cogliere l'Assoluto, tendere a lui dalla nostra stessa condizione di creaturalità.
Ci sono coppie e famiglie forse un po' «scalcagnate», magari «fuori» della norma, in cui tuttavia l'Assoluto si fa presente perché i loro componenti, magari con grande fatica, sono capaci o almeno tentano - ad imitazione (non sempre e necessariamente consapevole) di Gesù - di vivere questa condizione di servizio reciproco, come possono e come sanno, certo, ma pur sempre fidandosi ed affidandosi a vicenda e scoprendo così a poco a poco la sovrabbondanza del dono. La comunità cristiana non può emarginare queste coppie e queste famiglie, chiudendosi in una sorta di protezionismo spirituale, ma deve stare in mezzo a loro, coinvolgerle, scoprire la ricchezza che esse possiedono. Molte volte ci accorgiamo di non avere parole per il dialogo con esse, ed è allora che possiamo - come era solito dire il cardinal Martini - intercedere, cioè proprio «inter - cedere», camminare in mezzo, che significa incominciare con il vivere insieme con loro, imparando ad apprezzarci a vicenda ancora prima di intraprendere un dialogo esplicito. Se portiamo assieme la croce, la fatica si fa meno pesante.
È la prospettiva annunciata da Isaia: «Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro...» (Is 50,5). Non opponiamo dunque resistenza, a qualunque condizione, come Gesù che ha presentato la schiena a coloro che lo flagellavano, la guancia a coloro che gli strappavano la barba, non sottraendo la faccia agli insulti e agli sputi (cfr. Is 50,6).Come Simone di Cirene (cfr. Lc 23,26), il discepolo porta la croce (ogni discepolo, a imitazione del Maestro, porta la propria croce). La croce non è solo al centro delle letture di questa Domenica delle Palme, è al centro di tutta la nostra vita e della storia. Anzi, è solo partendo da essa che possiamo, a ritroso, ri-leggere e ri-narrare la vicenda di Gesù. Spesso la banalizziamo, la croce di Cristo. Eppure essa non è una croce qualunque, e le croci che ci ingombrano il cammino ai crocicchi delle nostre strade, nei lebbrosari dell'Africa, nelle favelas del Brasile, sotto le bombe sganciate dagli imperialismi d'ogni colore, a Kiev distrutta dall'assassino di turno, nei luoghi dove vengono appesi e dimenticati uomini e donne d'ogni fede, di ogni razza, di ogni età, nelle case dove vivono coppie in crisi, «irregolari», le definiamo, angosciate... non sono croci qualunque. Per questo la croce non va mai esibita, non va mai trasformata in oggetto di scandalo, come quelle sugli scudi dei soldati di Costantino, o quelle d'oro e tempestate di pietre preziose portate da molti uomini di Chiesa, o da ricche signore esibizioniste. La croce è una cosa seria. È il caso più serio della vita. Perché è su di essa che il Cristo ha avuto il coraggio di gridare: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza»: sono le parole del mio lamento» (Sal 22/21, 2).
La croce è una cosa seria. Quella croce, la cui ombra lugubre si allunga smisuratamente, a mano a mano che l'oscurità della notte sovrasta la luminosità del giorno, sembra ora dividersi in milioni e milioni di altre croci sulle quali continuano a essere consumati i crimini nefandi della storia. Sotto quelle croci, i ricchi e i potenti, i Putin e i mercanti d'armi e di parole, ma anche tutti noi che abbiamo, e che ci ostiniamo a difendere, dei privilegi, rifiutando nei fatti la salvezza portata da un povero e da un servo, smentendo la profezia gridata dagli inermi, continuiamo a dividerci le povere vesti di un Cristo, che tuttavia non cessa di interpellare la nostra cattiva coscienza. Ma a tutto ci si abitua: e l'idea stessa della morte viene stemperata dalla potenza sempre nuova delle nostre già robuste difese. Anche la forza coinvolgente della testimonianza del Cristo povero e umile, viene ricacciata negli angoli bui della nostra momentanea emotività, recuperata dalla neutralità scientifica del dato sociologico. Le statistiche... A che servono se non a farci dimenticare - una rimozione - che dietro a ogni morte c'è un nome e un volto, che dietro a ogni sofferenza - di un singolo o di un popolo - c'è il volto sfigurato del Cristo servo sofferente?
Non è certo per caso che la Chiesa ci fa oggi celebrare la festa delle Palme e ci fa rivivere l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Trionfale, non trionfalistica: perché il trionfalismo è l'opposto della legge della croce, in cui si incontrano umiltà e fedeltà. Per questo dovremmo leggere le stupende e drammatiche pagine della Passione secondo Luca assumendo, come il Cristo, la condizione degli sfruttati, degli emarginati, di tutti coloro ai quali è negata non solo l'ingresso in un Paese, ma la stessa condizione di esseri umani. Dovremmo vivere lo stato d'animo della donna trasformata in merce di scambio, o di quella che decide drammaticamente di abortire; del padre al quale è rifiutato un lavoro e un pane; del senza fissa dimora che cerca disperatamente un androne in cui trascorrere la notte. È una folla immensa: è questa folla immensa che accompagna Gesù mentre faticosamente ascende a Gerusalemme.
Gerusalemme, città della pace. Figura non retorica della Chiesa. Sarà capace la nostra Chiesa di raccogliere questo grido di dolore e di morte? Sarà capace di essere fedele, nella prassi quotidiana, all'Evangelo di liberazione e all'ansia di giustizia dei poveri? Crediamo che sia un po' questo l'impegno che deriva a noi tutti dalla lettura non sentimentale della Passione del Cristo. Un impegno a non lasciar tacere, dentro e fuori di noi, il grido degli oppressi. Perché non ai farisei del tempo, ma a ognuno di noi, è rivolta la parola di Gesù: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40).
Traccia per la revisione di vita
- Che cosa suggerisce oggi alla nostra coppia e alla nostra famiglia la «Passione» di Gesù?
- Siamo disposti in famiglia a portare reciprocamente le nostre croci, con la pazienza di Gesù, cioè con la sua disponibilità a patire-con noi?
- Siamo capaci di cogliere il mare di sofferenza, di fatica e di angoscia che è attorno a noi e a rinunciare ai nostri atteggiamenti superficiali e giudicanti?
- Sappiamo ricostruire e rileggere a partire dalle croci disseminate lungo il nostro cammino, tutta la nostra storia e la storia di chi ci sta accanto?
Luigi Ghia - Direttore di Famiglia domani