Omelia (27-03-2022)
don Alberto Brignoli
Follie di un padre

La Quarta domenica di Quaresima viene comunemente chiamata "Laetare", perché l'antifona d'ingresso alla Santa Messa del vecchio rituale latino iniziava con queste parole "Laetare Jerusalem", "Rallegrati Gerusalemme". E in effetti, i toni della Liturgia, delle orazioni, delle preghiere, sembrano "alleggerire", "rallegrare" un po' la mestizia del tempo quaresimale, metà del quale è ormai trascorso, aprendoci la porta su una seconda tappa di questo cammino penitenziale in cui già intravediamo la luce della Pasqua. Allora, emergono anche alcune espressioni tradizionali che allentano la tensione della Quaresima: pensiamo al Carnevale di metà Quaresima e al piccolo "giovedì grasso" che lo accompagna. Lo stesso colore rosaceo, invece del viola tipico della penitenza, ci ricorda non solo un motivo storico (il dono della "rosa d'oro" che i Papi facevano ai governanti cristiani in epoca tardomedievale proprio a metà quaresima, per ricordare loro la necessità di essere "rose che diffondano il buon profumo di Cristo" tra il popolo), ma anche un motivo "stagionale", dal momento che l'incipiente primavera (almeno nell'emisfero settentrionale) colora, con questa e altre meravigliose tonalità, i nostri giardini, i nostri campi, i nostri boschi.
Una domenica della gioia, quindi: in un contesto come quello attuale dove, purtroppo, di motivi per gioire, ce ne sono ben pochi. "A fame, peste et bello, libera nos Domine", recitavano le rogazioni che nel mondo agricolo venivano pregate perché fame, pandemie e guerre rimanessero lontane dalla quotidianità della vita. Sono passati secoli, da quando la Chiesa iniziò a pregare in questa forma: eppure, ci manca solo una carestia per rendere questa invocazione ancor più attuale e corrispondente alla realtà che stiamo vivendo! No, motivi di gioia ce ne sono davvero ben pochi, in questa domenica "Laetare": e ci si mettono anche alcuni personaggi del Vangelo a creare un clima di rabbia, tensione e infelicità. Ci mancavano farisei e scribi, che con i loro mugugni si indignano per l'atteggiamento misericordioso e accogliente di Gesù verso i peccatori; e così facendo, altro non fanno se non dare il pretesto a Gesù di parlare di loro attraverso una parabola che troppo spesso siamo abituati a interpretare come una lezione sul perdono, ma che in realtà è un insegnamento su ciò che in questo periodo ci manca davvero tanto, spesso anche per colpa nostra, ossia la gioia.
Sì, perché a questi loro mugugni seguono non una, ma ben tre parabole di Gesù che riempiono tutto il capitolo 15 del Vangelo di Luca: e ciò che le accomuna è proprio l'elemento della gioia e della festa. Festa e gioia di un pastore che ritrova una, una sola, delle sue cento pecore che si era smarrita; festa e gioia di una donna che ritrova una moneta perduta delle dieci che aveva con sé nel portamonete, e condivide questa gioia con le amiche, magari facendo un banchetto che le sarà costato ben più del valore di quella moneta. Poco importa: se c'è da fare festa e da gioire, si gioisce, costi quel che costi! Ragionò così anche quel padre che, di fronte al figlio redivivo che torna a casa dopo essersi fatto i suoi porci comodi (porci nel vero senso della parola, visto che diventa talmente simile ai maiali da litigare con loro per mangiare qualcosa), per di più sperperando la propria parte di eredità, estorta al padre prima ancora che egli morisse, e buttata al macero non certo per investimenti andati a male o per azioni economiche poco fortunate, l'unica cosa che questo padre pensa di fare è quella di corrergli incontro, abbracciarlo, baciarlo, rivestirlo con l'abito nuziale, ammazzare per lui il vitello grasso destinato alle nozze del primogenito, mettergli ai piedi i calzari che solo i veri signori potevano calzare e - come se non bastasse - rimettergli al dito quell'anello che certamente avrà dato in pegno quando si era trovato senza un soldo e che ora lo autorizzava (come una sorta di bancomat o di codice OTP da internet banking) a prelevare, pagare e spendere soldi di nuovo, come se nulla fosse accaduto. Ah, certo: mancava anche la festa! Come fai a non invitare un complesso musicale per far ballare la gente? E soprattutto, banchettiamo lautamente, tutto a spese del padre!
E poi, caro "padre", pretendi che l'altro tuo figlio, il primogenito, lo sgobbone, di ritorno dalla solita pesante giornata nei campi a lavorare sodo come tutti gli altri servi (il vero impresario non comanda solamente, dà l'esempio, ricordiamocelo bene!), arrivi a casa e si metta pure lui a fare baldoria come e con tutti gli altri? E per di più, dopo aver verificato che la festa (della quale non sapeva nulla, perché non era certo in programma) è stata organizzata a sorpresa da suo padre per il ritorno del fratello degenere? Ma ti raccomando! Vacci tu alla festa! Io - dice il figlio maggiore - non ci penso proprio a festeggiare il suo ritorno, anzi: meglio che non lo guardi nemmeno in faccia, quello là, altrimenti la festa gliela faccio io...
Ma il padre, di figli da incontrare e da abbracciare, ne ha due: e come ha fatto per il minore, così fa anche per il maggiore, esce verso di lui, gli va incontro, e ascolta che cosa ha da dirgli.
Apriti cielo! Senza freni e senza peli sulla lingua gli sputa il rospo, e gli dice tutto quello che gli stava sul gozzo da anni: che lui sgobba, che non spende soldi in donnacce, erba, alcool e slot machine come quell'altro "figlio di suo padre", che non ha mai fatto un solo giorno di vacanza e che dal "capo" (così chiama suo padre) non ha mai ricevuto nemmeno uno striminzito capretto per fare uno straccio di grigliata con gli altri amici sgobboni come lui! E il padre ha la pretesa che venga anche lui a fare festa e a gioire come e con tutti gli altri?
Chissà se il figlio maggiore entrerà mai a quella festa e se mai perdonerà a suo fratello. Di certo, il padre non smette mai di chiamare anche lui "figlio" (anche se quello non lo chiama mai "padre") e di dirgli che l'altro è suo fratello, nonostante tutto, nonostante lui lo definisca "questo tuo figlio" e nonostante abbia ancora la possibilità di dilapidare quel poco che ancora non ha dilapidato. Perché lui è così. Perché Dio è così: non ci vuole servi, ci vuole figli. Non ci vuole "a posto", ci accetta così come siamo.
E soprattutto, non ci vuole perfetti: ci vuole felici.