Omelia (10-04-2022) |
don Alberto Brignoli |
Dal deserto al Cenacolo Essere tentati, pregare, meravigliarsi, sbagliare, perdonare, fare festa: questi verbi ci hanno accompagnato, quest'anno, nel nostro cammino quaresimale. Verbi che abbiamo associato a luoghi e personaggi biblici, com'è ovvio, dato che li abbiamo ascoltati e riflettuti durante la liturgia domenicale; ma anche verbi che sperimentiamo nel nostro vivere quotidiano, in quel cammino della vita di cui la Quaresima è un simbolo, un segno. E allora, la tentazione fa parte della nostra vita (e ricordiamoci bene che non è peccato...altrimenti, almeno Gesù avrebbe dovuto esserne risparmiato): e la sperimentiamo soprattutto nei momenti di deserto, il deserto del cuore, dove sentiamo e soffriamo le aridità della vita, di fronte alle quali, però, non bisogna "cadere", non bisogna "abbandonarci alla tentazione", come diciamo quando preghiamo il Padre Nostro. La tentazione è il momento nel quale, più di ogni altro, dobbiamo alzare lo sguardo verso l'Alto (come Dio chiese ad Abramo di fare, in aperta campagna, guardando le stelle del cielo): è lì che ci viene data la possibilità di vedere una stella che brilla di più, un gancio in mezzo al cielo che ci attacca a Dio, il quale, poi, non ci lascia più andare, e si manifesta a noi in molti modi, a volte semplici e chiari, a volte un po' terrificanti e difficili da comprendere. Dio è bravissimo a meravigliarci, a stupirci con i suoi modi di fare: come quando si è manifestato a Mosè nel fuoco dell'Oreb, un fuoco che non si estingue, quale è il suo amore per noi. Un fuoco che perdura, e di fronte al quale ci chiede, come a Mosè, di stare a distanza, perché, certo, ci si può scaldare, così come ci si può bruciare. Dipende solo da noi, dal modo in cui ci avviciniamo a Dio: se lo facciamo, certo, non può che essere per amore, ma badiamo bene di non volerci "impossessare" dell'amore di Dio, perché è lui che possiede noi. Se vogliamo avere il possesso su Dio e sulle cose di Dio, cadiamo nello stesso errore del figliol prodigo: un figlio che ha sempre amato tanto il Padre, e che non si è mai dimenticato di lui nemmeno nel momento della lontananza, ma del quale voleva "impossessarsi", del quale voleva "le sostanze", "ciò che gli spettava in eredità", ciò che gli interessava. Proprio come facciamo noi, quando amiamo Dio fintantoché ci dà tutto quello che gli chiediamo; questo, però, alla fine ci allontana da lui, ci manda in esilio da lui, verso un paese lontano, un paese dove non ci sono "latte e miele", ma mucchi di ghiande, cibarsi delle quali per noi è già un lusso. Arriviamo, così, al punto più basso del nostro cammino: eppure, anche il peggiore dei peccati è perdonato dall'amore di Dio, dalla forza del suo perdono. Dio non fa distinzioni di sorta, riguardo al peccato; non esiste un peccato "peggiore" rispetto a un altro. Per lui, un peccato non è peggio di un altro solo perché "pubblico": e nessuno di noi è autorizzato a giudicare e condannare i peccati "pubblici" come peggiori, permettendosi poi, nel privato, di fare ciò che vuole. Nessuno di noi è autorizzato a prendere la donna adultera e portarla alle mura della città, condannando il suo peccato "pubblico" per sentirci a posto con la nostra sfera privata. Ma se noi vogliamo rendere "pubblici" i nostri giudizi e "pubbliche" le nostre condanne, allora incontreremo un Dio che rende "pubblico" anche il suo perdono. Se un Dio così ci dà fastidio, la nostra conversione non sarà mai effettiva. Ma se il Dio del perdono è per noi motivo di gioia invece che di rabbia o di rancore, allora entriamo nel Cenacolo, come i discepoli con Gesù all'inizio del racconto di Passione di quest'oggi, e viviamo la festa di Pasqua con la speranza nel cuore. All'inizio di questa settimana siamo invitati a condividere il pane Azzimo dell'antica Alleanza; al termine di questa settimana, riconosceremo il Risorto sulla strada di Emmaus mentre spezzerà per noi il pane lievitato dal suo Amore che si fa vita, e vita donata. |