Omelia (10-04-2022) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Con Gesù il nostro annientamento Pietro lo aveva preso in disparte perché, mosso da filantropica premura, non voleva che si avvicinasse a Gerusalemme; Gesù intravedeva nel suo intento un piano diabolico e risoluto aveva deciso di persistere nel suo progetto. Adesso, acclamato dal popolo che gli fa ressa tutt'intorno, incedendo lui per primo dinanzi a tutti, entra nella città capoluogo del Tempio, mentre tutti gli usano riverenza lanciando palme e rametti d'ulivo e distendendo i loro mantelli. Viene osannato dalla turba di popolo che lo riconosce Messia e Re e gli riserva un'accoglienza degna dei grandi mentre lui, come previsto dal profeta Zaccaria, entra in città sul dorso di un puledro figlio d'asina (Zac 9, 9). La fama dei miracoli e delle guarigioni, come pure delle franche parole divine proferite in Galilea aveva raggiunto la popolazione di Gerusalemme, che lo aveva sempre considerato il Messia e Salvatore prefigurato dai profeti, e adesso come tale lo esalta, affermandone la regalità. La stressa ovazione Gesù (si spera) riceve anche oggi nelle nostre celebrazioni, particolarmente gremite di gente che ostenta palme e rami d'ulivo verso l'alto. Si acclama alla regalità di Gesù Cristo, da noi riconosciuta, venerata ed esaltata in questo gesto esteriore. A una settimana dalla celebrazione del suo trionfo di gloria nella Pasqua, si inizia l'ascesa verso questo traguardo, con la convinzione però che la gloria sarà preceduta dalla passione, cioè dai patimenti e dalle sofferenze che l'amore comporta. Infatti la sovranità e la messianicità di Gesù, a Gerusalemme, non si identifica con l'autoesaltazione e con l'affermazione di sé. Gesù non si impone e non prorompe su nessuno. Piuttosto, "pur essendo di natura divina, non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2, 6). Una tale deliberazione viene denominata "kenosis", cioè "svuotamento assoluto di sé che Gesù opera a vantaggio di tutti noi. Nonostante sia Dio nonché Salvatore e Messia universale, Gesù si priva di se stesso per rendersi servo, perché tale è la condizione di noi tutti davanti a Dio: siamo servi inutili e insignificanti. L'uomo come tale davanti a Dio non è che un sottomesso e avendo assunto in tutto la nostra natura umana Gesù ha voluto anch'egli assumere questa condizione. Tuttavia il servizio di Gesù per l'uomo arriva fino allo stremo, al punto da diventare sofferenza, vessazione, sacrificio e umiliazione estrema fino alla morte. Questo perché per Gesù servire equivale ad amare, ma se l'amore esclude il sacrificio non può essere definito tale. Per amore Gesù assumerà la riprovazione e la morte di croce. Fare ingresso a Gerusalemme in pompa magna comporta quindi non soltanto ricevere omaggi ma predisporsi all'immolazione e alla croce, senza aggirare l'ostacolo ma affrontandolo a viso aperto. il Re universalmente riconosciuto è anche la vittima di espiazione, il capro espiatorio, l'agnello votato al macello (Cfr. Is 52 - 53). Il Dio della gloria diventerà il simbolo del disprezzo e della vergogna e si farà per noi maledizione. In tutto questo risiede la grandezza di Dio Misericordia: il farsi piccolo pur essendo grande, il rendersi maledizione nonostante sia all'origine di ogni benedizione,, l'apparire criminale e reietto, nonostante la sua comprovata innocenza. Mostrando nella debolezza la sua vera forza. Come dice Giovanni: "In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Non soltanto per i nostri, ma per quelli del mondo intero."(1Gv 4,10). Quale atteggiamento assumere di fronte a questo fenomeno dell'amore oltremisura che Dio ci da' nel suo Figlio Gesù Cristo? Da parte nostra si resta solitamente asettici e impassibili davanti al dono procurato di Gesù; si considera la sola esteriorità del tempo di passione, la sola superficialità, il dato banale. Se davvero ci si immedesimasse nella straordinarietà dell'amore di Gesù nei nostri confronti, non si esiterebbe a seguire l'invito di Paolo "Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo (Fil 2, 1 -5). Se Gesù si è annientato per noi fino allo stremo, non dovemmo cioè esitare a vivere il nostro annientamento nell'esercizio dell'umiltà, la quale è indispensabile perché si raggiungano fede, speranza e carità. Vivere la kenosis (annientamento) vuol dire accrescere la consapevolezza di non essere affatto grandi, di avere dei demeriti mentre gli altri ci superano in qualità, pregi e virtù; comporta ammettere errori e defezioni, e che per essere grandi occorre cominciare a farci piccoli, esili e indifesi (S. Agostino). L'annientamento è necessario perché non elevando oltremodo noi stessi riconosciamo gli altri come noi stessi, vivendo come nostri gli stessi loro diritti e la loro dignità, considerando il valore e la qualità latente del nostro prossimo. E cosi essere pronti all'esercizio della carità umile, attenta e disinteressata. Annientarsi equivale infatti a configurarsi a Gesù per fare esattamente come lui ha fatto. Alsem Grun afferma che una delle motivazioni per cui la Chiesa ci invita a vivere questo incipiente tempo di passione è l'accettazione della nostra precarietà e della nostra insufficienza: nella contemplazione del dolore di Cristo sulla croce, comprendiamo come l'uomo non può pretendere di essere come Dio, non può autoesaltarsi oltre misura e non spadroneggiare sugli altri e sulla realtà che lo circonda, ma deve semplicemente riconoscere il proprio stato di mortalità e di dipendenza. Che Gesù abbia scelto di soffrire il croce, come Dio e come Uomo, ci sprona a che noi siamo solamente uomini, precari e soggetti a sofferenza e limitatezza. Anche la stessa sofferenza del resto è un'occasione di associare noi stessi al dolore di Cristo, per favorirci della sua presenza consolante mentre accresciamo l'umiltà, appunto riconoscendo la nostra piccolezza e limitatezza, dalla quale però Dio è in grado di elevarci come egli stesso verrà innalzato in conseguenza della resurrezione. L'umiltà e l'annientamento sono per noi qualificanti e risolutivi come lo saranno per Gesù e non mancano di apportare i loro vantaggi per noi stessi, avendo in se stessi l'epilogo inevitabile della gloria e dell'innalzamento, che consegue alla passione e alla croce. |