Omelia (10-04-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Giovanni 8, 51-59

Gesù riprende la tematica dell'immortalità derivante dall'osservanza della sua parola. In 5,24 aveva assicurato il passaggio dalla morte alla vita per chi ascolta la sua parola, cioè crede nella sua rivelazione e vive secondo essa. Cristo è la risurrezione e la vita, perciò chi crede in lui, anche se sperimenterà la morte temporale, eviterà la morte eterna, cioè l'inferno (cfr Gv 11,25-26).

Gesù fa dipendere la vita eterna e l'immortalità dall'ascolto della sua parola, dall'adesione esistenziale e pratica al suo messaggio. In antitesi con il diavolo menzognero che ingannò i nostri progenitori con la sua parola falsa (cfr Gen 2,17; 3,2ss) e portò nel mondo la morte (cfr Sap 2,24), Gesù, con la sua parola divina, è fonte di vita e di immortalità.

La reazione dei giudei è scomposta e oltraggiosa. L'affermazione di Gesù è veramente inaudita per un semplice uomo, perché anche i personaggi più grandi della storia della salvezza sono morti. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio, la sua pretesa di donare l'immortalità sarebbe assurda.

La risposta pacata di Gesù fa vedere la sua grandezza eccezionale. Nella frase finale di questo dialogo drammatico (v.58), Gesù proclama esplicitamente la sua divinità e quindi anche la sua superiorità anche di fronte al più grande patriarca del popolo ebraico, Abramo.

L'affermazione dei giudei che ritengono Dio loro padre è falsa. Essi ignorano del tutto Dio perché non osservano la sua parola. La conoscenza di Dio infatti non si riduce alla sfera speculativa, ma si acquista e si dimostra osservando i suoi comandamenti. La conoscenza vera di Dio e del suo Figlio si riduce all'amore concreto e operativo.

Alla domanda dei giudei: "Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo?", Gesù risponde che il padre del popolo ebraico era completamente orientato verso il tempo del Messia e visse in funzione di lui. La nascita dl suo figlio Isacco fu motivo di gioia (cfr Gen 18,1-15; 21,1-7) perché in lui si realizzavano le promesse messianiche. All'annuncio di questo lieto evento il patriarca rise (cfr Gen 17,17), ossia si rallegrò e gioì, perché nella nascita di suo figlio previde la discendenza dalla quale sarebbe nato il Cristo. Abramo vide il giorno di Gesù, come Isaia vide la sua gloria (cfr Gv 12,41) e Mosè scrisse di lui (cfr Gv 5,46): tutto l'Antico Testamento è in funzione di Gesù.

"Gli dissero allora i giudei: 'Non hai ancora quarant'anni e hai visto Abramo?'". Questo intervento finale dei giudei prepara la solenne proclamazione della divinità di Gesù. Notiamo che essi deformano e capovolgono l'affermazione di Gesù. Egli ha detto che Abramo vide il suo giorno. Essi rovesciano il soggetto e l'oggetto e fanno dire a Gesù di aver visto Abramo. Per gli increduli giudei è inconcepibile che Gesù sia oggetto della contemplazione di Abramo, tanto sono lontani dal comprendere la vera identità del Figlio di Dio.

"In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono". La risposta di Gesù è il vertice di tutto il dialogo drammatico del capitolo 8. Essa contiene la proclamazione esplicita della divinità di Gesù. Contrapponendosi al più grande patriarca dell'Antico Testamento, del quale la Scrittura descrive la vita e la morte, Gesù si presenta come l'"Io sono", il Vivente, il vero Dio, Jahvè in persona.

La reazione dei giudei conferma il significato divino dell'espressione usata da Gesù. Per loro è un bestemmiatore, perché si è proclamato Dio e quindi merita la lapidazione come prescrive la legge di Mosè (cfr Lv 24,16).

Questo nascondersi di Gesù ha un profondo significato teologico: è l'eclissi del Sole, che è il Logos incarnato, dinanzi all'incredulità dei suoi interlocutori.

Il capitolo 9 continuerà questo tema della luce di Cristo nell'episodio della guarigione del cieco.