Omelia (16-04-2003) |
padre Lino Pedron |
Commento su Matteo 26, 14-25 Giuda, non avendo potuto intascare i soldi del prezzo dell'unguento (Mt 26,8-9), ha rimediato alla meglio vendendo Gesù al prezzo di uno schiavo (cfr Es 21,32): trenta denari. Pessimo commerciante! "L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (1Tim 6,10). L'indeterminatezza dell'indicazione: "Andate in città, da un tale..." (v.18) è voluta certamente da Gesù per non fornire indicazioni al traditore prima del tempo stabilito. E' anzitutto nella comunità dei discepoli che si gioca la passione di Gesù: è là che viene "consegnato" e che egli "consegna" se stesso, donando il suo corpo e il suo sangue. All'annuncio del tradimento da parte di uno di loro, i discepoli si addolorano profondamente. Ognuno è toccato da questo annuncio perché ognuno si sente capace di tradire, come lo evidenzia la loro domanda: "Sono forse io, Signore?" (v.22) ripresa come eco da Giuda con una variante significativa: "Rabbì, sono forse io? (v.25). Per gli undici discepoli Gesù è il Signore, per Giuda è un semplice maestro di dottrina. A Giuda Gesù risponde come risponderà al sommo sacerdote (v.64) e al governatore Pilato (27,11): "Tu l'hai detto" (v.25). E' l'uomo infatti che giudica se stesso attraverso il suo rapporto con il Cristo: "Poiché in base alle tue parole sarai giudicato e in base alle tue parole sarai condannato" (Mt 12,37). La lamentazione di Gesù su Giuda (v.24) non è una profezia sulla dannazione finale del traditore, ma un invito a ciascuno a esaminare la propria coscienza. "Noi tutti, così come siamo, potremmo inserire nel vangelo il nostro nome al posto di quello di Giuda" (J. Green). |