Omelia (07-04-2023)
padre Gian Franco Scarpitta
Sulla croce il prezzo del nostro riscatto

Quando Mosè, disceso dalla sommità del monte Sinai, comunicava al popolo i comandamenti divini e questi li accoglieva, l'alleanza fra Dio e il popolo d'Israele veniva suggellata con il sacrificio delle vittime animali. Dopo aver proclamato tutte le prescrizioni del Signore, prese del sangue dei vitelli e delle giovenche date in olocausto e con esso asperse tutto il popolo e gli arredi sacri, mentre il popolo giurava di osservare i Comandamenti di Dio (Es 24, 5 - 12; Eb 2, 11 e ss.). Il sangue delle vittime animali era infatti propiziatorio per gli Israeliti. Ciò anche a proposito della remissione di tutti i peccati, perché proprio il sangue animale (che rappresentava la vita) estingueva le colpe commesse (Lv 17).
Non è affatto casuale quindi che Gesù adesso sparga il suo sangue sulla croce per espiare i nostri peccati. A differenza degli animali dell'Antico Testamento, è lui stesso la Vittima sacrificale, Agnello votato al macello, che offre se stesso sostituendosi anche al tempio di Gerusalemme, per realizzare un sacrificio che ci riscatta dalle nostre colpe, rendendoci giusti e meritori davanti a Dio Padre. Gesù sulla croce patisce le pene che tutti gli uomini meriterebbero per i propri peccati, motivo per cui siamo riconciliati con Dio. Siamo "resi giusti", giustificati in moda da avere dei meriti in forza della sua grazia.
Ciò che era più urgente per l'uomo non era che si convincesse della legge di Dio a forza di prescrizioni o di moniti coercitivi; neppure era più urgente che rimediasse al suo errore e alla sua concupiscienza attraverso le opere di bene. Queste, pur necessarie, non sarebbero sufficienti da sole a guadagnarci l'intesa con Dio. Era più urgente che l'uomo fosse salvato dalla sua condizione di peccaminosità, che evitasse la condanna inesorabile che lo stesso peccato consegue, che guadagnasse la comunione piena con il suo creatore. Era più urgente per l'uomo avere dei meriti o delle possibilità che gli evitassero la condanna inesorabile. E allora Dio ha preferito, fattosi uomo egli stesso, sottomettersi al supplizio estremo quale agnello condotto al macello (Is 52 - 53), perché dal dolore del suo Figlio Gesù Cristo potesse trarre sollievo e salvezza. E così, come ricorda Giovanni "Vi scrivo queste cose perché non pecchiate, ma se qualcuno ha peccato abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo il giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli del mondo intero"(1Gv 2, 1 - 2); siamo stati raggiunti dalla grazia che ci ha riscattati mettendoci in condizioni di essere liberi. Il peccato è rifiuto categorico dell'amore di Dio, riluttanza alla sua offerta di comunione, refrattarietà e distacco dal nostro principale Referente e irrimediabilmente è anche causa di abbandono e di deperimento. Mancare verso Dio è inoltre mancare verso noi stessi, venir meno alla nostra stessa dignità, allontanarci sempre più dai nostri obiettivi di felicità di realizzazione, identificando questi con le gioie passeggere o con le soddisfazioni destinate a finire. Il peccato è illusione di vivere, perché da' all'uomo una presunta concezione di vita. In ogni caso esso esclude l'amore, anche quando ci sembri di accarezzare in esso del bene, perché è sempre un modo di elevarci oltremisura, dandoci una schiavitù con l'illusione di libertà. Della perniciosità del peccato è possibile accorgerci già in questa vita, contando i fallimenti e i disordini che esso suscita attorno a noi; ma essa sarà ancora più evidente al termine di questo corpo mortale, quando l'anima si accorgerà di aver mancato a se stessa avendo voluto prescindere da Dio che è la sua origine. Se nel corpo avrà sussistito con pertinacia lontana da Dio, automaticamente verrà realizzata la propria condanna quando questo Dio non lo potrà più raggiungere. E questa è la situazione raccapricciante che definiamo Inferno. Comincia già in questa dimensione attuale, quando si vuole vivere da morti la vita e se ne trova consolidamento automatico quando l'anima necessita di quella Vita che noi le abbiamo precluso definitivamente con la nostra ostinazione. Gesù Cristo ce ne ha liberati, le ha tolto potere pagando per noi il dazio delle pene che qualsiasi peccato comporta come conseguenza, ottenendoci tutti i meriti e le condizioni per salvarci, oggi è quaggiù, così pure domani e lassù.
Se Dio avesse individuato un altro mezzo più appropriato per salvarci, lo avrebbe certamente messo in atto; nessuna procedura però può realizzare il riscatto e la salvezza dell'uomo se non quella di morire per noi; sia come Uomo che come Dio. Come certi genitori si autoaccusano al posto dei loro figli omicidi per evitare loro la condanna, per salvarne la reputazione e per pagare loro il dazio dei loro misfatti (non è un caso raro), così Cristo si è "autoaccusato" ritenendosi egli stesso colpevole delle nostre colpe, perché noi possiamo evitarne le pene e le conseguenze.
La sofferenza di Cristo in croce diventa per noi farmaco efficace contro il dolore e la malattia. La sua morte diventa per noi vita. Lo diventa anche per coloro che Gesù è andato a riscattare nel frattempo fra la morte e la resurrezione: "è stata annunciata infatti la buona novella anche ai morti perché, pur avendo subito, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello spirito"(1Pt 4, 6). E' disceso agli inferi perché coloro ad annunciare ai defunti le grandi opere di Dio, perché anch'essi potessero godere dei benefici della redenzione e anche in questo si è realizzato il riscatto, affinato alla vittoria sulla morte.
Se Cristo però ci ha liberati, non possiamo che vivere da persone libere e intraprendenti nel bene, perché possiamo sortire gli effetti della salvezza e della vita nella fede e nella speranza in colui che è l'Autore della vita.