Omelia (15-01-2006) |
don Fulvio Bertellini |
Le due chiamate La chiamata diretta Nel Vangelo di Giovanni il brano di questa domenica segue immediatamente la testimonianza del Battista e segna il passaggio dall'epoca di Giovanni all'epoca di Gesù, Agnello di Dio. Dopo averlo additato ai propri discepoli, che subito si allontanano, Giovanni scompare praticamente di scena. Siamo invitati dunque anche noi a compiere questo passaggio dall'Antico al Nuovo testamento, dalla profezia al compimento, dall'uomo vecchio all'uomo nuovo. Passaggio che non si può realizzare senza l'incontro diretto con Gesù. Che però è una vocazione, una chiamata dall'esterno, non si realizza per propria volontà. I due discepoli che si incamminano sulle tracce di Gesù credono di seguirlo, ma sono in realtà cercati da lui, raggiunti dalla sua domanda, costretti a scoprire le carte. La posta in gioco nascosta "Che cosa cercate?". Forse non sapevano neppure loro che stavano cercando qualcosa. In realtà tutti cercano qualcosa, ma troppo spesso senza saperlo o senza saperlo dire. Solo il contatto diretto con la sua Parola fa emergere la ricerca implicita e non detta: ed è un contatto che è già chiamata, vocazione. "Dove abiti?". Nella loro controdomanda, i discepoli non si rendono conto di tutte le implicanze. L'evangelista distribuisce nel suo Vangelo ampi riferimenti: "Io dimoro nel Padre, e il Padre dimora in me". "Dimorerà in me, e io in lui". Il luogo dove vuole abitare il Maestro è il seno stesso del Padre, ed è la vita stessa dei discepoli. Ma sarà possibile scoprirlo solo in seguito: "Venite e vedrete". E' la conferma della chiamata, che i discepoli seguono con fede quasi incosciente, tuffandosi nell'ignoto, eppure con la giusta dose di ragionevolezza: la testimonianza di Giovanni, e il modo di fare del Maestro appaiono degni di fiducia. Presso di lui La casa di Gesù non compare neppure nella narrazione. Il luogo dove abita il Maestro non è un luogo fisico, ma un luogo dello spirito, in cui è possibile l'incontro con la persona di Gesù. Dovremmo chiederci a questo punto che tipo di luoghi sono i nostri luoghi, quelli delle nostre parrocchie, quelli della nostra Diocesi. Forse sono troppo ingombranti? Luoghi troppo invadenti per permettere l'incontro vivo con il Risorto? In passato avevo dato una certa importanza, nell'interpretazione di questo brano, al luogo, alla "casa" di Gesù. Ora mi pare che l'economia della narrazione sia tutta sbilanciata sulla persona di Cristo, e non sul "dove" lui abitava. Certo però, un luogo da vedere, almeno in partenza, c'era. E anche noi abbiamo bisogno di spazi. Quanto grandi? Quanto belli? Ed è sufficiente che siano scalcinati perché siano spazi di incontro con Cristo? Ma su questo vedetevela voi: su certe cose ho solo le domande, e non le risposte. Di sicuro, si tratta alla fine di arrivare a "dimorare in Gesù", a stabilire un contatto con lui. Il che a un certo punto conduce a sganciarsi da ogni luogo e da ogni rituale fisso. C'è un'ora precisa dell'incontro, che avviene in quel giorno e in nessun altro. Quel giorno diventa unico, non ripetibile, e suscita nuovi istanti, anch'essi unici e non ripetibili. Chiamata indiretta Andrea dunque parte, se ne va. Si allontana da Gesù, presumiamo noi. L'evangelista non lo dice esplicitamente. Perché in realtà da quel momento Andrea è sempre con Cristo, sempre vicino a lui. L'allontanamento fisico non implica un distacco totale. Andrea va, e chiama suo fratello Simone. Ma è Gesù che parla in lui. Andrea ha ancora davanti agli occhi la persona di Gesù, e non può fare a meno di invitare suo fratello. Qui non è Gesù che direttamente si rivolge a Simone, ma se lo ritrova davanti per interposta persona. Tuttavia il momento decisivo è ancora quello dell'incontro diretto: prima lo sguardo che si fissa su di lui, poi la voce che si posa non solo sulle sue orecchie, ma sulla sua stessa identità: ti chiamerai Cefa', sarai Roccia, sarai la pietra fondante di una nuova comunità di fratelli. Una storia da tradurre "Rabbì (che tradotto significa maestro)"e "Cefa (che tradotto significa Pietro)": abbiamo ben due annotazioni nello stesso brano che testimoniano che è avvenuta una traduzione, che la narrazione della chiamata dei primi discepoli era transitata o stava transitando dall'ebraico al greco. Perché la storia resti viva, occorre una traduzione, anche se la traduzione appesantisce il testo, aggiunge nuovi particolari. D'altra parte la traduzione è anche arricchimento, novità di espressione. Siamo invitati anche noi oggi a dare la nostra "traduzione" della vocazione dei discepoli: non una traduzione puramente linguistica, ma esistenziale. Come ci ha raggiunto la chiamata del Maestro? E come noi diventiamo per i fratelli coloro che li portano a lui? Flash sulla I lettura Il brano famoso della vocazione di Samuele, in apparenza così delicato e poetico, è in realtà tutto pervaso di tensione drammatica, con una lieve punta di ironia: il famciullo può sentire la voce di Dio, ma è incapace di riconoscerla; il vecchio sacerdote ha la competenza e la conoscenza per identificarla, ma non può ascoltarla. Solo dopo vari tentativi il vecchio è in grado di insegnare al giovane il modo di mettersi in ascolto di Dio. Il dramma consiste nel fatto che il messaggio che Samuele deve ascoltare riguarda proprio la famiglia di Eli, la sorte dei suoi figlie e di tutto il popolo: Israele sta per andare incontro ad una sconfitta bruciante, e i figli di Eli saranno uccisi in battaglia. Il finale del brano è però solitamente escluso dalla lettura liturgica. Giustamente forse, perché senza un'adeguata spiegazione potrebbe sconcertare l'uditorio delle nostre Messe domenicali. Tuttavia si rischia di dimenticare in tal modo che la chiamata di Dio non è una vaga voce che sussurra a pochi eletti, ma è sempre parola viva, che attraverso l'eletto si rivolge a tutto il popolo e lo chiama alla conversione. Tutto il popolo è destinatario dell'annuncio, tutto il popolo, ricevendo la parola divina delle labbra di Samuele, è invitato a cambiare la sua condotta perversa. Si tratta dunque di una parola impegnativa, a volte dura, a volte a prima vista incomprensibile, che sembra chiedere cose troppo difficili. Ma è l'unica parola che salva e che dà vita. Il brano mostra un duplice versante dell'ascolto del messaggio di Dio: al piccolo Samuele compete di ascoltare e riferire la voce di Dio; all'anziano spetta invece il compito di saperla riconoscere e interpretare. La vocazione che riguarda Samuele è finalizzata a confermare e rafforzare la vocazione di tutto il popolo. Il fatto che anche oggi esistano vocazioni specifiche all'interno della Chiesa non significa il disimpegno da parte dei più: se Dio dona determinati carismi all'interno della Chiesa, tutta la comunità è chiamata a riconoscerli, accoglierli, permettere che portino frutto. Flash sulla II lettura "Fratelli, il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo": in una giornata di prevalente intonazione vocazionale (la chiamata di Samuele, la chiamata dei due discepoli), che sembra puntare sul carattere eccezionale di alcune esperienze (il profeta, il discepolo), la seconda lettura individua la prima vocazione, comune ad ogni essere umano: l'essere chiamati all'esistenza, ossia l'avere - o meglio: essere - un corpo. Tutti noi abbiamo un corpo, tutti noi siamo unità inscindibili di corpo e anima. La nostra vita terrena si svolge nel corpo, e anche l'al di là sarà in una nuova dimensione corporea: "Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza". La salvezza riguarda quindi non solo l'anima, ma anche il corpo. Non però nel senso che vorremmo intendere noi: essere preservati da ogni malattia, da ogni debolezza, da ogni infermità e fragilità. La salvezza del corpo consiste nell'essere parte dell'unico corpo di Cristo. Per cui ogni nostro gesto, ogni nostra parola, e per così dire ogni nostro respiro possono essere vissuti in lui: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?.... O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi...?". "... ma chi si dà all'impudicizia, pecca contro il proprio corpo". Il discorso che Paolo sta affrontando è quello dei comportamenti sessuali. Come si vede, non si tratta di un discorso oscurantista, né legato alla morale di epoche passate, né animato da una visione negativa della corporeità. Anzi, lo scopo è proprio di mantenere alto il valore del corpo, in ogni sua dimensione, in ogni suo gesto. Qui Paolo non si scontra soltanto con la nostra cultura cosiddetta "moderna". Le sue parole possono suonare urtanti oggi come suonavano urtanti agli orecchi dei Corinzi, abituati agli usi sessuali più liberi, che non avevano nulla da invidiare rispetto ai nostri, neppure dal punto di vista della legittimazione culturale. Il punto di vista proposto dall'Apostolo è molto serio, e non è liquidabile soltanto come residuato di una mentalità arcaica: fino a che punto è possibile, con tutto se stessi, con tutti i propri comportamenti, essere parte dell'unico corpo di Cristo, "glorificare Dio nel proprio corpo"? |