Omelia (06-01-2024) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Matteo 2,1-12 I Magi sono giunti da molto lontano, alla ricerca del Re dei Giudei. "Re": basta questa parola di sole due lettere a mandare in panico Erode, i suoi dignitari e tutta Gerusalemme: Gesù è dunque re, ma in che modo? L'evangelista Matteo si preoccupa di collocare il titolo e svolgere il tema della regalità di Cristo nel contesto della Passione, al cap.27: in particolare, quando Pilato lo interroga, quando i soldati lo dileggiano, travestendolo da re di burla,... Una regalità distante dal nostro stereotipo (di Re), al punto da sembrare una caricatura irritante e blasfema. Ma concentriamoci sui fatti che seguono immediatamente il Natale. Troviamo un parallelismo, a dir poco stridente, tra il Bambino-Re-Messia e il re Erode: il secondo ha paura del primo, come già, al tempo della schiavitù in Egitto, il Faraone aveva avuto paura del (futuro) popolo di Israele, lo aveva condannato alla schiavitù dei lavori forzati, e aveva ordinato di ucciderne i figli maschi, alla nascita. Erode fa altrettanto. Ma c'è una differenza sostanziale tra i due monarchi: Erode ha paura di colui che è venuto al mondo non per essere nemico del suo popolo, ma per salvarlo. Ripartiamo dall'inizio: già nella genealogia di Gesù, inserita da Matteo nei primi 17 versetti del suo Vangelo, emerge un primo riferimento alla regalità di Gesù, in quanto discendente dal Re Davide. Ma, tra Davide e il Nazareno c'è l'esilio a Babilonia, che segnò per Israele la fine del regno, ma non del suo peso politico... i fatti ai quali stiamo assistendo ne sono una triste conferma. Il racconto dei Magi presenta il tema del Cristo cercato e rifiutato. Il Messia è segno di contraddizione, secondo quanto il vecchio Simeone aveva predetto a Maria nel Tempio. Fin qui, nessuna sorpresa per il (pio ) Israelita: la Scrittura lo ha educato a pensare che la Parola di Dio e ogni Sua manifestazione costituiscono una forma di giudizio: alcuni lo accettano, altri lo rifiutano. La sorpresa arriva però dalla nascita di questo bambino a Betlemme e dall'evolversi della vicenda; man mano che la storia progredisce, cresce anche il rifiuto; ripeto, non da parte dei lontani, degli estranei, ma dai correligionari del Nazareno. Matteo evidenzia questo particolare fin dai primi capitoli del suo Vangelo. Sullo sfondo del racconto è la profezia di Isaia cap.60, nella quale si racconta di popoli giunti a Gerusalemme con le loro ricchezze. I Lontani cercano il Messia e lo accolgono. Tutto il Vangelo è segnato da questa (positiva) novità: pensiamo alla parabola dei vignaioli omicidi (21,33ss), o a quella del banchetto di nozze (22,1-14), che si concludono con il passaggio del regno dall'infedele Israele ai pagani, un passaggio già previsto da Dio e dunque integrato nel suo progetto di salvezza. Tuttavia la novità non implica un cambiamento nell'agire di Dio, al contrario: Dio non fa' che applicare il principio-cardine che emerge ad ogni pie' sospinto dalle Scritture: l'accoglienza della Parola quale criterio decisivo; là dove c'è accoglienza, c'è disponibilità a convertirsi; e la conversione è ciò che distingue coloro che entrano nel regno dei cieli, da chi invece rimane fuori. Si va di sorpresa in sorpresa! Peccato che il Vangelo di oggi termini con l'uscita di scena dei Magi... Continuando la lettura scopriamo che il Messia, rifiutato da Erode & co. vince; praticamente l'ultima parola è del Messia. Al cap.2, v.19, l'angelo convince Giuseppe a ritornare dall'Egitto, perché "coloro che volevano uccidere il bambino sono tutti morti". E così il Salvatore torna dal suo popolo, in attesa di dare inizio alla Sua vita pubblica, e all'annuncio della salvezza. Leggendo tutto il Vangelo di Matteo, scopriamo che il calvario annunciato e vissuto dal Messia si trasforma in trionfo sul male e sui suoi operatori. Esattamente come nella vicenda (iniziale) di Erode. La potenza di Dio è nascosta nella fragilità. L'Incarnazione è l'apparire di Dio nell'umiltà della nostra carne; trent'anni dopo, la vita sarà esaltata dall'Onnipotente attraverso la debolezza e lo scempio della croce. Nell'affresco tracciato da Matteo non c'è soltanto la persona di Cristo, c'è anche la Chiesa nascente e presente: la vicenda dei Magi introduce i temi della missione e dell'universalità della salvezza. Il popolo di Dio ha sempre vissuto una tensione difficile tra elezione e universalismo. Implicita o esplicita, la convinzione di essere migliori; anzi, proprio la consapevolezza di essere più bravi è il motivo per il quale andiamo a portare il messaggio della salvezza a coloro che non lo hanno ancora ricevuto, o se lo sono dimenticato. Anche il carisma dell'annuncio può essere equivocato, interpretandolo come privilegio, come una carità da superfluo, più che come la naturale conseguenza di un dono ricevuto immeritatamente da Dio. "Siamo servi inutili, abbiamo fatto solo il nostro dovere", ci ricorda san Luca (cap.17). Potremmo dire che la vocazione alla missione costituisce una grande inclusione; nel senso che inizia e conclude il Vangelo. Ma c'è una differenza tra il messaggio dei Magi e l'invio degli Undici da parte del Risorto: mentre i Magi, simbolo delle genti, si muovono verso Betlem, la consegna del Cristo: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni..." precisa che la missione non consiste (più) nell'attrarre i popoli a venire, ma nell'uscire noi-Chiesa dalle comodità di un ovile ormai imborghesito, per andare a cercare coloro che nell'ovile non ci sono ancora entrati, o dal quale sono usciti, magari perché scoraggiati, non accolti, o addirittura emarginati e cacciati... |