Commento su Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
Gli spunti di riflessione suggeriti dalla Parola di questa quarta domenica del tempo ordinario sono molti e tutti importanti anche per la vita di famiglia. I quattro brani biblici presentano alcuni interessanti collegamenti tra loro, segno di una indefettibile saggezza della Chiesa. Ci soffermeremo su tre aspetti che ci sembrano particolarmente significativi ed attuali.
Il primo aspetto, richiamato dalla prima lettura e dall'Evangelo, riguarda la profezia. Il profeta è la bocca di Dio, Dio parla per mezzo di lui. Ma quello dei profeti è uno strano destino: non li ascoltiamo in vita, salvo poi a santificarli, o almeno ad accorgersi della loro forza profetica, post mortem. Quanti profeti noi oggi osanniamo, o riabilitiamo, dopo averli contrastati, offesi, disconfermati, uccisi...A Gesù è successo così. Ed è proprio alla luce del Nuovo Testamento, nel nostro caso del brano di Marco, che va letto in chiave messianica il testo del Deuteronomio. Qui, viene promesso un profeta, e il profeta è Gesù, il Messia, che porta a tutti i popoli la parola definitiva della liberazione. E la porta con autorità. Autorità sta per autorevolezza. Gesù era autorevole, mai autoritario. Anzi, si è sempre battuto contro tutte le ideologie autoritarie che negano l'uguaglianza tra gli uomini, enfatizzano il principio gerarchico, propugnano forme di regimi autoritari in cui le persone sono schiacciate dalla violenza del potere. Parlare con autorevolezza è poi esattamente il contrario della banalizzazione della Parola. Se durante la celebrazione dell'Eucaristia, rendimento di grazie di tutta la comunità e non solo proprietà riservata a chi celebra (Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia, recita il Salmo 94/95), il celebrante approfitta dell'omelia per togliersi i classici "sassolini nella scarpa", per sgridare quelli che tra i (pochi ormai) fedeli presenti non sono arrivati puntuali o per prendersela con i giovani che non partecipano o per fare del moralismo facile, tradisce la Parola, la cui forza evocativa dovrebbe invece far risaltare, perché è sul Cristo e sulla sua Parola che noi scommettiamo la nostra fede.
È vero: il problema dell'evangelizzazione rimane uno dei più ardui da risolvere perché si tratta di trasmettere l'annuncio immutabile dell'evangelo a donne e uomini che vivono in una situazione di costante mutamento storico, e dunque di incarnare e attualizzare nell'oggi la proposta della buona notizia della redenzione. È consolante - e credo anche legittimo - pensare che i contemporanei del "laico" Gesù (un laico che predica, che fa l'omelia... horribile dictu!) avvertissero immediatamente l'autorità di una predicazione "incarnata" nella storia, quindi sempre originale, e la contrapponessero a quella - teorizzante, integralistica, ripetitiva e banale - dei preti del tempo. Il Concilio Vaticano II ha parlato di "aggiornamento". Nello spirito conciliare aggiornarsi non significa unicamente la messa in atto di una serie di rinnovamenti di forma, ma un rinnovamento di stile, quello che oggi ancora manca in (quasi) tutte le liturgie domenicali. E poi non lamentiamoci se i giovani (e anche i non più giovani) hanno smesso da tempo di frequentarle. Una attualità di metodo non ha alcun significato se non è accompagnata da un'attualità di pensiero. È questa che dobbiamo incominciare a recuperare. E per farlo non possiamo vivere di rendita: occorre studiare. Perché l'azione evangelizzatrice della comunità cristiana abbia un senso, acquisti efficacia e si realizzi occorre che la Parola che proviene dal Vangelo si incontri con la parola che proviene dalla storia concreta di uomini e di donne: donne e uomini che, magari, per partecipare all'Eucaristia, hanno abbandonato il loro lavoro abituale e sono corsi in chiesa, forse con due minuti di ritardo, alcuni zoppicando, per gridare la loro angoscia per le sorti del mondo e il loro Kyrie, eleison!, Signore, pietà!, non per farsi sgridare da un prete chiuso nelle proprie sicurezze. Non posso annunciare l'evangelo chiedendo alle persone che mi ascoltano di estraniarsi per un momento dalla Storia, dalla loro umanità, dalla loro "terrestrità" ("Signore, che li hai plasmati dalla terra, non stupirti che essi siano terreni...", cantava in Eva Charles Péguy), di immaginare che non esistano ingiustizie, lotte sociali, femminicidi, guerre e stragi di innocenti. Non posso parlare immaginando di avere come interlocutori donne e uomini astratti; e a chi vive drammaticamente, talvolta addirittura somatizzandole, le angosce del tempo non posso proporre soluzioni astratte e consolatorie: sarebbe come suggerire a qualcuno che mi dice di aver fame di fare una bella passeggiata o di prendere una tazza di caffè. Il ritardo dell'incontro tra Evangelo e Storia allarga il solco, o il divorzio, tra Chiesa e mondo; rende la Chiesa irrilevante nelle relazioni con il mondo della cultura, con il mondo giovanile, con il mondo del lavoro e con il mondo dei poveri.
Ma è importante vedere come si manifesta la profezia di Gesù, e qui ci sembra interessante trovare i collegamenti tra le letture.
Gesù è profeta, in quanto è maestro di sapienza: l'annuncio deuteronomico è chiaro. Il profeta annunciato è "perfetto", pari a Mosé. Ma nel contempo c'è una promessa di Dio: Egli non farà mai venire meno la profezia; anche in tempi difficili come quello che stiamo vivendo, Dio è in grado di suscitare profeti addirittura dalle pietre, visioni anche in luoghi segnati del freddo pragmatismo del Maligno. A noi il compito non facile di non aderire a queste suggestioni diaboliche: "diaboliche" proprio in senso etimologico, opera cioè di un divisore, di colui che stacca il nostro collegamento, la nostra comunicazione e la nostra relazione con Dio.
In questo senso - è il secondo elemento di riflessione - occorre recuperare una visione realistica, spesso non facilitata da un'immagine popolare ancora diffusa, dello "spirito immondo". Esso è rappresentato da tutte quelle forze che rendono l'uomo e la donna schiavi ed oppressi: il denaro, l'accumulazione delle ricchezze, il rifiuto, il disprezzo o la trascuratezza dei valori sobri e "puliti" dell'amicizia, dell'amore di una coppia che amandosi celebra sempre l'amore di Dio (e pensiamo che lo celebrino anche quelle coppie considerate "anormali" e alle quali, ma sì..., diamo pure una benedizione, purché sia breve e di nascosto...), dell'accettazione serena non conflittuale della propria fragilità, della convivialità con il diverso, della solidarietà con tutti coloro che abbandonano la loro terra inospitale per trovare accoglienza presso altre nazioni le quali spesso chiudono loro le porte ed il cuore, della cultura che non può venire trascurata da facili scorciatoie, del rifiuto della cattura dell'altro, anche all'interno della coppia, per dare risalto al nostro inguaribile narcisismo. "Divisore", spirito immondo, è il dominio, il vero protagonista del nostro tempo, un dominio che produce ingiustizie, disuguaglianze, violenze, guerre fratricide, divisioni, idoli (anche contrabbandati come religiosi) che impediscono di vedere il volto sereno, fiducioso, fraterno, amico, solidale e misericordioso del Padre. Dove c'è un idolo c'è sempre una vittima. E le vittime sono il segno evidente che il divisore è all'opera. Il divisore ci impedisce di guardare e giudicare la storia dalla parte delle vittime. Ma ci obbliga invece a farlo stando dalla parte dei dominatori.
Apparentemente - ma solo apparentemente - fuori da questa linea di riflessione sta la severa pagina di Paolo alla comunità di Corinto. Sposarsi o restare celibi? Si tratta di una questione che la primitiva comunità si pone e che spesso anche noi ci poniamo: qual è la condizione migliore, il matrimonio o il celibato? Dietro questa domanda stanno due pregiudizi di fondo: il matrimonio come luogo per realizzare la gestione della sessualità maschile e femminile, la sicurezza, il benessere fisico e relazionale da un lato, e, dall'altro la verginità come risposta pratica ad una paura della sessualità, spesso un'ossessione nei suoi confronti. Quanti danni crea questa ossessione! E quanti equivoci anche "dottrinali" e pastorali. Entrambe queste posizioni - sembra dirci il sereno equilibrio di Paolo - sono idolatriche. Serve, al contrario, una visione profetica (qui sta a ben vedere, la saldatura con la prima lettura e con l'Evangelo) del proprio stato. Sia nel matrimonio che nella verginità possiamo - e dobbiamo - celebrare l'amore di Dio. Celebrarlo come un canto di gioia e non come un peso da portare. Per farlo è necessario mettere in atto tutta la nostra volontà, la nostra scelta cosciente. Né il matrimonio, né la verginità ci possono essere imposti, da una cultura, da una norma, da una tradizione, perché diventeremmo profeti afoni. E come faremmo allora a suscitare nel mondo la sorpresa e la meraviglia?
Belle queste pagine della Parola per la nostra vita di famiglia e di comunità, per riscoprire la profezia e farci "tromba" dello Spirito.
Traccia per la revisione di vita
1) Qual è il nostro atteggiamento nei confronti dei profeti, talora scomodi, talora fuori dai nostri schemi mentali e dei tradizionali quadri di appartenenza? Li contestiamo? Accettiamo la loro provocazione? Siamo disposti ad accogliere e seguire il cammino che ci indicano? Cerchiamo anche, nella nostra fragilità, essere "profeti"? In quali occasioni? Con quale fatica?
2) Nella nostra vita di coppia e di famiglia ci accorgiamo dell'azione del divisore? Pensiamo che le tentazioni riguardino sempre e solo la sfera sessuale, oppure anche gli aspetti sociali, politici, culturali della nostra vita? Che cosa facciamo, quali scelte mettiamo in atto, per difendere i poveri, per stare dalla parte della giustizia, per non scendere mai a patti con i potenti e con i ricchi?
3) La scelta del nostro stato di vita è cosciente, fondata su un progetto? Quale profezia concreta e attuale per il nostro essa ci suggerisce?
Luigi Ghia - direttore di Famiglia domani