Omelia (21-01-2024)
Paolo Curtaz
Dai confini

Hanno arrestato il Battista, non tira una bella aria per i profeti.
Sarebbe più prudente andarsene, fuggire, lasciar perdere.
E invece lui inizia a raccontare di Dio, a partire dalle terre lontane, da quella Galilea delle genti guardate con disprezzo dai puristi di Gerusalemme.
Quando sarebbe saggio smettere, inizia.
Quando sarebbe prudente starsene chiusi in casa, racconta.
Quando sarebbe opportuno non pensare troppo alle cose di Dio, è il momento di occuparsene.
Parla, la Parola. Annuncia. Scuote. Indica.
È qui, il Regno, si è fatto vicino.
Visto che non siamo in grado di cercare Dio senza stravolgerne il volto, o manipolarlo o immaginarlo a nostra immagine e somiglianza è lui, Dio, a colmare la distanza che ci separa. Il Natale che abbiamo appena celebrato ci ricorda esattamente questa straordinaria verità: Dio si fa vicino, si fa incontro, è qui. E lo raggiungiamo (anche) attraverso la Parola, che oggi papa Francesco ha voluto mettere al centro delle nostre comunità.
Il Regno si è avvicinato: svegliati, muoviti, scuotiti.
Convertiti e credi.
Convertiti: cioè guarda se la strada che stai percorrendo ti sta conducendo verso la pienezza della felicità o se, invece, ti stai allontanando dalla tua anima.
E se ti accorgi che la strada che percorri non ti porta da nessuna parte inchioda, vai inversione di marcia e torna indietro.
Fatti guidare, segui le indicazioni, non chiudere gli occhi mentre tieni ben saldo il volante della tua vita, il timone della (piccola) barca della tua vita.
E credi: fidati di quello che Gesù è venuto a raccontare, a dire, a testimoniare.
Questo è il messaggio con cui Gesù inizia la predicazione. Questa è la sintesi del Vangelo in cui crediamo.
Questo è ciò che potremmo dire, senza tanti fronzoli, ai tanti smarriti di oggi: il Dio di Gesù ti vuole incontrare, accorgitene! Fidati! Lasciati amare!
Anche adesso, soprattutto ora in cui paura e venti di guerra hanno nuovamente resettato le nostre sicurezze piccine e vuote. Così il potente vangelo di Marco descrive l'opera di Gesù subito dopo lo stringato racconto del battesimo.
Invece di passare il tempo a lamentarsi, a fuggire, a rintanarsi in sacrestia, dopo l'arresto del Profeta, come facciamo noi, Gesù osa.
Esce e va a chiamare dei collaboratori. E che collaboratori!
Noi.

Sui confini
Li va a prendere ai bordi del lago, ai confini della terra di Israele, sulle sponde del grande lago che Marco chiama "mare" a richiamare la liberazione dall'Egitto, a ricordare la paura atavica del popolo di Israele per la grande distesa d'acqua.
Li va a cercare in una terra abbandonata, periferica, disprezzata.
E cerca dei lavoratori, gente comune, non dei sacerdoti, non dei religiosi, non degli esperti in comunicazione, non degli influencer capaci di attrarre le folle.
Li chiama senza merito, li chiama anche se non sono ancora discepoli, anche se non hanno fatto nessun corso di formazione, anche se non hanno preso nessun diploma da annunciatori, anche se ancora non credono.
Li chiama perché vuole loro e li va a prendere dove sono, non li aspetta dietro una scrivania.
Gesù si muove. Gesù agisce, li corteggia, li ama, li chiama.
Mi corteggia, mi ama, mi chiama.
È lui il protagonista del racconto, è lui che ci viene a cercare.

Così come Dio chiama Giona, il più imperfetto e fragile fra i profeti, pavido e capriccioso, affatto devoto, affatto virtuoso, per invitare gli abitanti di Ninive a cambiare atteggiamento. E i niniviti cambiano, forse perché vedono quell'invito rivoltogli da un uomo fragile come loro...
Dio ha bisogno di me per annunciare al mondo la salvezza.
Non per salvare il mondo ma per vivere da salvato. Perché il mondo non lo sa di essere salvo.
Nel piccolo, fragile mondo in cui vivo Dio mi chiama a diventare suo collaboratore.
Nella quotidianità talvolta insipida e meschina, si manifesta, se ho affinato lo sguardo interiore, se ho dato spazio all'anima, se voglio diventare discepolo.
Nelle periferie esistenziali in cui abito, mi viene a stanare. Non a Gerusalemme, non nel tempio, non nelle scuole rabbiniche.
Ai confini, fuori. Qui, ora, adesso.

Reti
Per seguirlo, però, bisogna osare.
Bisogna lasciare le reti che spesso riassettiamo, cuciamo, ripariamo.
Lasciare tutto ciò che ci lega, che ci rende schiavi: il giudizio degli altri, i sensi di colpa, il nostro narcisismo, l'immagine di noi stessi, le ansie da prestazione, i soldi, le relazioni famigliari possessive, l'apparire... serve continuare?
Siamo pieni di reti da abbandonare. A volte, ribadisco, le riassettiamo e magari lo facciamo pensando di far piacere a Dio. Dei geni.
Giacomo e Giovanni lasciano il loro padre Zebedeo. La più stretta delle reti, quella famigliare, patriarcale, affettiva.
Devono lasciare lui e i suoi garzoni, lui e i suoi figli. Possiede, Zebedeo. Lega a sé.
I figli sono suoi.
Devono lasciare anche lui. Per scoprire un altro modo di vivere la paternità.
Pescatori di umanità
Per diventare pescatori di umanità.
Per tirare fuori tutta l'umanità che ci abita. E che abita gli altri attorno a noi.
Per immaginare il mondo come lo vede Dio, con un'umanità redenta, pacificata, dialogante, parte di un progetto. Così come sarebbe bello diventasse la Chiesa. Così come possiamo costruire la Chiesa. Con piccoli passi possibili (C.Corbella).
Questo possiamo fare: diventare uomini e donne fino in fondo, abitati dal Vangelo e innamorati della vita. Sarebbe una splendida pubblicità per il Regno.

Penso proprio che abbia ragione san Paolo quando scrive ai Corinti: passa la scena di questo mondo. Meglio investire su ciò che rimane, in ciò che conta.
Meglio mollare le cose inutili, abbandonarle sulle nostre spiaggie esistenziali.
Per scoprirci amati. Per scegliere di amare dell'amore con cui ci siamo scoperti amati.