Omelia (04-02-2024) |
diac. Vito Calella |
I due “perché” dell'urgenza di evangelizzare Al termine del racconto evangelico di questa domenica, Gesù dice ai suoi primi discepoli, che si erano messi nelle sue tracce, cercandolo nel luogo solitario da lui scelto per pregare: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38). Facciamo nostra l'urgenza di evangelizzare, testimoniando la realtà del "già ma non ancora" del Regno di Dio, con parole ed azioni di amore gratuito! Il Vangelo di Marco ce la propone anche con il ripetersi dieci volte dell'avverbio temporale: «subito», solo nel primo capitolo (cfr. Mc 1,10.12.18.20.21.28.29.30.42.43). Immededimiamoci nell'ardore missionario dell'apostolo Paolo e della sua equipe itinerante. Lo abbiamo ascoltato dal testo della prima lettera ai Corinzi: «Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Perché è così urgente evangelizzare? Ci sono due motivi: il primo è perché siamo sensibili al grido di sofferenza e di isolamento di tante persone che vivono accanto a noi; il secondo è perché crediamo nel Regno di Dio. Professiamo la fede in Gesù Cristo que ha già compiuto la sua missione terrena, ha già sconfitto la morte e tutte le forze demoniache dell'egoismo umano con la sua morte di croce e la sua risurrezione. Vogliamo essere membra vive del suo corpo ecclesiale, chiamato ad essere germe e inizio di questo Regno della Santissima Trinità nel mondo. Il vangelo secondo Marco di questa domenica ci ha permesso di completare l'ascolto sulla giornata pastorale di Gesù a Cafarnao, iniziata nella sinagoga di Cafarnao, nel giorno festivo del sabato (domenica scorsa), e terminata all'alba del giorno dopo il sabato, notte inclusa. Il Cristo risuscitato ci insegna a come diventare evangelizzatori e promotori della realizzazione de Regno di Dio, dando una luce di speranza a chi vive immerso nella disperazione dei suoi problemi fisici, psicologici e spirituali. Il grido di sofferenza e solitudine di tante persone che vivono accanto a noi Dopo aver ascoltato la prima lettura, immedesimandoci nella sofferenza di Giobbe! Portiamo davanti al Signore, in questa celebrazione domenicale, il dramma di tante persone, parenti, amici, conoscenti, che vivono in una situazione difficile di malattia fisica o psicologica o spirituale, costrette a patire l'inferno dell'isolamento che porta alla depressione e a forme di disperata richiesta di aiuto. Riascoltando il grido di sofferenza di Giobbe, facciamo memoria della fatica di vivere e di sperare di tanta gente che ci vive accanto: «L'uomo non compie forse un duro servizio sulla terrae i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? Come lo schiavo sospira l'ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d'illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: "Quando mi alzerò?". La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all'alba. I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: Il mio occhio non rivedrà più il bene» (Gb 7,1-4.6-7). Di fronte a questo grido di aiuto non possiamo rimanere indifferenti perché noi siamo discepoli di Gesù risuscitato, vincitore del peccato e della morte; solo lui è la «nostra pace» (Ef 2,14), la «nostra speranza» (1Tm 1,1), il nostro «cammino verità e vita» (Gv 14,6). La sua giornata pastorale a Cafarnao, attestata in Mc 1,21-38, ci rivela tre contenuti essenziali da donare a chi vive nelle tenebre della sua malattia fisica, psicologica e spirituale: - la celebrazione festiva del giorno del Signore diventa carità nella quotidianità; - la carità è la febbre contagiosa del servire per essere stati serviti; - la notte della guarigione di tutti è sostenuta dall'alba della perseveranza nella comunione di Gesù con il Padre. La celebrazione festiva del giorno del Signore diventa carità nella quotidianità. Nel racconto evangelico la sinagoga di Cafarnao e il giorno di sabato ci richiamano l'importanza della celebrazione domenicale del giorno del Signore. Per il popolo di Israele la sinagoga era il luogo sacro che offriva l'opportunità dell'ascolto della parola di Dio. Per noi cristiani la chiesa della nostra comunità cristiana è il luogo sacro della liturgia della Parola e della liturgia Eucaristica, che diventano esperienza culminante del nostro vivere quotidiano secondo la volontà del Padre e opportunità di rigenerarci alla fonte dell'amore gratuito del Padre, unito al Figlio nello Spirito Santo, per ritornare a vivere con fede, speranza e carità le nostre relazioni nel contesto della nostra vita quotidiana. Nel racconto evangelico la casa della suocera di Pietro e la sua febbre ci richiamano la realtà della nostra vita quotidiana, sempre segnata da qualche situazione difficile, che affligge la nostra mente e il nostro cuore. Dopo la celebrazione della Parola nella sinagoga, Gesù opera la carità nella casa della suocera di Pietro, descritta con tre fantastici verbi: «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano» (Mc 1,31a). L'avvicinarsi di Gesù per noi diventi l'uscire verso le periferie geografiche, sociali, culturali ed esistenziali dell'esistenza umana, da dove proviene il grido di disperazione del "Giobbe" della porta accanto. Il far rialzare di Gesù diventi il nostro contributo solidario e concreto di essere umili strumenti di liberazione per chi giace in fondo al pozzo dei suoi problemi fisici, psicologici e spirituali. Il prendere per mano di Gesù diventi il condividere il nostro tempo e le nostre risorse, con pazienza e perseveranza, camminando lato a lato con chi soffre. Servire gli altri con gratuità, incontrando Cristo risuscitato nell'esistenza dei più poveri e sofferenti è un'aspetto di maturità della nostra vita cristiana guidata dallo Spirito Santo, coerente con i sacramenti del Battesimo, Cresima ed Eucaristia. La carità è la febbre contagiosa del servire per essere stati serviti La febbre della suocera di Pietro ci fa pensare all'effetto contagioso di una influenza. L'azione caritativa di Gesù cura. La febbre della carità è contagiosa: chi è gratuitamente servito risponde servendo: «La febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,31b). L'esperienza di sentirsi amati e rispettati può provocare la scelta di amare e rispettare gli altri. L'opera concreta della carità contagia più del virus di una febbre fisica. Ma ciò non è un meccanismo automatico. Sono molte le situazioni in cui la nostra azione caritatevole verso i poveri, gli esclusi, i dipendenti da droghe e alcol provoca reazioni di un loro approfittarsi egoistico nei nostri confronti, nonostante la nostra consegna generosa. Solo lo sguardo sulla morte e risurrezione di Gesù può garantire la vera conversione per chi è povero e affranto dalle sue miserie ed è abbracciato dalla nostra azione caritatevole. La notte della guarigione di tutti è sostenuta dall'alba della perseveranza nella comunione di Gesù con il Padre. L'intensa giornata pastorale di Gesù non si conclude con la guaarigione della suocera di Pietro, nel pomeriggio di quel sabato. «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano» (Mc 1,32-34). Interpretando simbolicamente il testo, illuminati dall'evento della morte e risurrezione di Gesù, il contesto della notte può rappresentare il dono totale di Gesù per la salvezza di tutti, nell'ora della sua morte di croce. Gesù è venuto a portare la guarigione-salvezza a tutti, indistintamente, debellando i demoni dell'egoismo umano, che vedono smascherato il loro potere limitato di fronte alla forza della gratuità dell'amore divino. Ma questo grande sacrificio di Gesù, di annullare se stesso per la salvezza di tutti, è sostenuto dalla comunione con il Padre, assicurata nella sua preghiera solitaria alle prime luci dell'alba. La comunione col Padre fino all'ultimo respiro della sua vita gli assicurò la risurrezione. Possiamo anche noi perseverare in Cristo, scegliendo tempi privilegiati di preghiera in solitudine e silenzio, per essere fedeli nel servizio, affinché i poveri che serviamo lo scelgano come centro della loro tribolata esistenza, contemplando con gratitudine, che noi siamo solo umili strumenti, a Lui consegnati, per rivelare a loro che solo la santissima Trinità: «risana i cuori affrantie fascia le loro ferite» (Sal 147,3). |