Omelia (11-02-2024) |
Paolo Curtaz |
Lo voglio L'inizio del vangelo di Marco non finisce di stupirci. Gesù ha iniziato il suo ministero guarendo un indemoniato nella sinagoga, per ricordare alla sua comunità, e a noi, che la prima conversione da fare è all'interno della Chiesa che, troppe volte, ha una visione "demoniaca" della fede, come di qualcosa che intercetta la vita quotidiana nella visione di un Dio venuto a rovinarci. Gesù passa poi dalla sinagoga alla casa di Pietro, guarisce la suocera, perché la comunità è composta da persone guarite per servire, da peccatori perdonati. Poi dalla casa alla piazza, là dove Gesù incontra ogni povertà e la redime. Qual è il segreto della forza interiore di Gesù? Come riesce a risanare senza farsi travolgere? Rubando tempo al sonno per restare da solo in preghiera in ascolto del Padre. Il silenzio e l'interiorità sono essenziali per sopravvivere. Per trovare il coraggio di incontrare tutto quel dolore. Per liberare tutti quei demoni che uccidono. Il silenzio e l'interiorità ci sono necessari per non cedere alla disperazione in questo tempo fragile e violento, in un futuro in certo in cui i tamburi di guerra, le mille crisi internazionali arrivano nelle nostre case lasciandoci senza parole e senza speranza. Perciò è essenziale il deserto. Essenziale a Lui, il Signore. E a noi. Pietro lo raggiunge, irritato, tutti ti cercano! Come a dire: fatti trovare! Cosa fai qui. perditempo? Sciocco che sei, Pietro! Sciocchi noi quando pensiamo di dettare l'agenda a Dio. Di possederlo. Di orientarlo. No, Gesù non tornerà a Cafarnao. Non vuole installarsi. Non vuole appartenere a qualcuno. Non ha dove posare il capo il Figlio dell'uomo. Andrà per i villaggi. O così vorrebbe. Ma qualcosa urge. Lebbre Il primo capitolo del vangelo di Marco finisce con un incontro. Un incontro che interrompe il progetto del Signore di annunciare la buona notizie in altri villaggi. Come accade anche a noi quando abbiamo tante idee ma poi dobbiamo fare i conti con la realtà. Non sempre positiva. Un lebbroso si avvicina al Signore, quando avrebbe dovuto tenersene a distanza. La lebbra è una malattia della povertà. Malattia che ti fa marcire la carne addosso. Malattia che ti rende solo. Che azzera gli incontri, che impedisce gli abbracci. Una malattia vista, dai contemporanei, come una punizione divina. Che suscita ribrezzo negli sguardi e giudizio e condanna inappellabile. Si butta in ginocchio il lebbroso. Dovrebbe stare lontano da una persona sana. Ma il dolore rende ciechi e folli. Chiede di essere purificato, non guarito. Di vedere cadere il marcio che gli attanaglia le carni e l'anima. Anni di rabbia, di umiliazione, di ribellione. Di sensi di colpa, di giri di testa, di bestemmie verso un destino cinico e baro. Chiede di essere purificato. Che è ben più di essere guarito. Chiede un cambiamento prodono di sé, chiede di tornare ad essere o di diventare quel capolavoro che Dio ha in mente. Di togliergli da dosso ogni pensiero, azione, giudizio, emozione che imputridiscono e fiaccano. Gesù lo vede e, così scrive Marco/Pietro, si arrabbia (non c'è compassione come scritto nei nostri testi). Si arrabbia verso l'opera del male, verso la discriminazione che ha fatto di un ammalato un maledetto e un escluso. Non ama il dolore, Dio. Non ama la sofferneza. Si arrabbia e agisce: lo tocca. Non resta contagiato, ma contagia il lebbroso con la sua energia divina, con la sua anima di luce e di pace. Rivela al lebbroso e a noi: Dio vuole che siamo guariti, purificati. Dio vuole che rinasciamo. Dio non ama dolore e sofferenza. La malattia non è destinazione ultima. È guarito il lebbroso. La sua pelle risorge. Questo è il Dio che Gesù vive e racconta: un Dio che vuole la nostra salvezza, un Dio felice che ci vuole felici. Ma accade qualcosa di strano. Taci Con veemenza il Maestro chiede al lebbroso guarito di tacere, di rientrare in se stesso, di accogliere questa purificazione come opportunità, senza disperdersi. E di andare dai sacerdoti a verificare l'avvenuta guarigione: davanti al miracolo capiranno? O, come vedremo nei successivi capitoli, chiuderanno il loro cuore? Ma la gioia è troppa. E non riesce a tacere. Racconta il fatto. Letteralmente c'è scritto che racconta la parola al punto che la fama di Gesù si diffonde ovunque. Come la suocera di Pietro, guarita per servire, il lebbroso è purificato per annunciare. Questi siamo noi: guariti per servire, guariti per raccontare. Tanto più credibili perché portiamo sulla nostra carne i segni della malattia che ha sconvolto le nostre vite. Gesù è venuto a guarire gli ammalati, coloro che riconoscono la propria fragilità e si affidano. A volte, invece, invochiamo compassione, guarigione, salvezza. O, più realisticamente, una grazia, uscire da una sofferenza, riuscire a superare una malattia, ottenere un favore. E, se accade, quando, accade, arrivederci a grazie. Passata la festa, gabbato lu santo. Il lebbroso no, diventa testimone. Talmente entusiasta da costringere Gesù a cambiare i suoi piani per non essere scambiato per un santone qualsiasi. Che tenero! Bene se siamo guariti. Bene se siamo usciti dal marcio che ci taglia da noi stessi e dagli altri. Bene se in Cristo abbiamo riconosciuto il Signore che ci ama, che vuole purificarci. Ma di quella guarigione avvenuta o che sta avvenendo siamo chiamati a diventare testimoni, perché siamo guaritori feriti. Perché la Chiesa è la comunità dei perdonati e dei salvati, non dei perfettini col sopracciglio alzato, dei salutisti dell'anima sempre a criticare la vita altrui. Qualunque sia la lebbra che deturpa il tuo volto, Dio vuole che tu guarisca. Dio vuole la tua felicità (e sa in cosa consiste). Tu? Sappiti amato.
|