Omelia (11-02-2024) |
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COMMENTO ALLE LETTURE Commento a cura di Quintino Venneri Quanto noi associamo alla parola lebbra, al tempo di Gesù era molto più ampio. Con "lebbra" si intendono tutta una serie di malattie della pelle, più o meno gravi, ma comunque evidenti, visibili, riconoscibili. Se eri malato di lebbra, questo non poteva essere nascosto. Diventava un marchio evidente a te e a chi viveva intorno a te. In aggiunta, la lebbra era considerata un castigo, una punizione di Dio: il marchio era anche un marchio di infamia e di vergogna davanti alla tua famiglia e alla città nella quali abitavi. In altre parole, tutti sapevano - perché lo vedevano - che sicuramente avevi compiuto qualcosa di sbagliato. Nessuno sapeva cosa ma tutti mormoravano su di te e su ciò si presumeva tu avessi combinato. Non solo era vittima della sua malattia ma anche colpevole! La lebbra, tutte le lebbre, poi, erano considerate contagiose: chi ne era affetto viveva lontano dalle città e dai villaggi; eri stigmatizzato, letteralmente escluso; rinnegato dalla famiglia, impossibilitato a costruirti una vita o qualsiasi tipo di relazione. Lontano dagli altri, lontano da Dio. Ogni relazione era tranciata: vergogna sociale e senso di colpa religioso. In sostanza, i lebbrosi erano morti viventi: avevano una vita biologica ma erano morti in tutte quelle relazioni che rendono la vita...vita! Ed è in questo quadro, statico, funereo, ghettizzante, mortifero che entra la vita. Quando Gesù incontra il lebbroso, incontra tutti questi presupposti. Ed è lui, il lebbroso, in realtà a fare il primo passo. Succede, a volte, che la malattia ti porti a fermarti, a chiuderti in te stesso, soffiando sul fatto che nessuno ti può capire. È un atteggiamento comprensibile. Il lebbroso invece fa una cosa diversa: rilancia, mostra la sua volontà di vivere, di rompere le barriere e i muri che lo circondavano. I processi di guarigione trovano sempre nel malato il loro indispensabile punto di partenza. Non si autocommisera ma fa il primo passo, rivolgendo al Signore Gesù una parola di aiuto. Ed è questa parola l'inizio della guarigione: perché è il segno di una relazione che ricomincia, che strappa il lebbroso dalla sua solitudine. È la solitudine, a volte, la lebbra più pervasiva. Sono le mani tese che ci salvano; sono parole di accoglienza, delicate e forti insieme, a guarire le storture nelle quali ci impiglia la vita; è lo sguardo buono di chi non ci pesa per le nostre mancanze ma ci sostiene per ciò che potrebbe essere a rimetterci sulla via della vita. Questo fa Gesù: apre una possibilità, facendo accadere una relazione nuova, una possibilità inattesa, un orizzonte finora confinato dietro la ferrea osservanza delle leggi di purificazione. Egli mostra compassione che non è pietismo ma capacità di fare spazio dentro di sé alla vita e alle vicende delle persone che incontriamo. Significa farle risuonare dentro di sé, fare spazio dentro di sé, lasciando qualcosa di sé perché l'altro possa trovare dimora, accoglienza, ospitalità. Egli incontra colui che tutti evitano evidenziando in questo modo che la lebbra è nel cuore di chi non vuole sporcarsi le mani ma si ferma alla finestra a guardare. La sua compassione si fa concreta, tattile: Egli tocca il lebbroso, si lascia toccare, come spesso accadrà nel Vangelo. Già! Elogio della concretezza, della carne, della terra. Il Vangelo non riguarda le cose astratte, lo spirito o la psiche. Il Vangelo non è una conferenza ma una tavola imbandita dove, per sederti, l'unica cosa ti viene chiesta è la fame di senso, di significati, di relazione, di vita, di gratuità. La guarigione per il lebbroso inizia da un tocco, da uno scambio concreto di vicinanza e di amicizia: egli che non poteva essere toccato da nessuno si vede infranto il muro di separazione e sperimenta che lui stesso può prendere contatto con se stesso, che la sua condizione non è cronica, non è senza via di uscita. Ma questo incontro non è senza conseguenze. Il lebbroso - isolato dalle città e dai villaggi - se ne va, restituito alla propria condizione iniziale. Ora è il Signore Gesù a non poter più entrare nei villaggi e nella città. Il brano si chiude a parti invertite. Succede sempre così: nell'incontro vero, tu prendi sempre qualcosa degli altri. Doni del tuo e, in parte, lo perdi. Ma è una perdita che apre ad una pienezza. Non accadrà così anche sulla croce? È quando tutto perdi, che tutto puoi ritrovare. Rinnovato, amplificato, moltiplicato. Non è forse la peggiore delle lebbre, quella che ti porta a voler tenere sempre tutto per te? |