Omelia (25-02-2024) |
diac. Vito Calella |
Amare perdendo tutto, senza perdere la fede e la speranza Le due sfide della nostra vita cristiana vissute come "lotta" - Domenica scorsa abbiamo riflettuto sulle tentazioni attraenti provocate da Satana. La figura satanica rappresenta la radice del male del nostro egoismo, che ci condiziona dal di dentro con i demoni della gola, della lussuria, dell'avidità di beni materiali, della tristezza, dell'accidia, della rabbia, dell'ambizione, dell'orgoglio e dell'invidia. . Satana rappresenta anche tutte le forze del male che ci condizionano dall'esterno, poiché l'umanità, nel corso della storia, ha creato la mentalità pagana di questo mondo, che esalta la libertà assoluta dell'essere umano con la felicità illusoria del piacere individuale, irrispettoso della dignità di altri; l'ideale illusorio dell'autorealizzazione personale, basata sul benessere economico; la potente idolatria del denaro, che provoca guerre e la distruzione della biodiversità naturale; la diffusione di fake news, che accentua la polarizzazione politica tra partiti del bene e partiti del male, Occidente e Oriente, movimenti conservatori e di rinnovamento nella Chiesa stessa, intolleranza religiosa tra cristiani, ebrei e musulmani; detto in due parole: inimicizia sociale. - Questa domenica, quella della trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo, siamo chiamati a meditare sul secondo motivo della nostra vita cristiana vissuta come "lotta": è la sfida della gratuità dell'amore, cioè il coraggio di amare pur perdendo tutto; senza però perdere la nosta consegna fiduciosa alla Santissima Trinità (fede), perseverando nella speranza che nulla vada perduto di tutto ciò che viene donato o sacrificato in nome della gratuità dell'amore. La nostra "lotta" cristiana, del «perdere la vita per salvarla» (Mc 8,35), è una sfida possibile per la nostra vita solo se perseveriamo nella contemplazione dell'evento salvifico e trasformante della morte e risurrezione di Gesù, sceltoda noi come fulcro centrale del nostro discernere ed agire. Da Abramo a Dio Padre: "perdere" il figlio, senza perdere la fede e la speranza - Dall'ascolto orante della prima lettura rimaniamo impressionati per il racconto del sacrificio di Isacco, compiuto dal padre Abramo, in nome dell'obbedienza fiduciosa alla parola di Dio, nonostante l'assurda richiesta di andare a sacrificare il suo unico figlio, garanzia della promessa di una numerosa discendenza: «Prendi il tuo unico figlio, Isacco, che tanto ami, e va' nel paese di Moria e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò» (Gen 22: 2). Abramo arrivò addirittura a «prendere il coltello per sacrificare suo figlio» (Gen 22,10), dimostrando il suo coraggio di «non risparmiare il suo unico figlio» (Gen 22,12). Per questo fu fermato dal compiere quell'abominevole sacrificio umano, che fu sostituito dall'offerta sacrificale «di un montone, preso per le corna in un cespuglio» (Gen 22,13a). - Dall'ascolto orante della lettura della lettera dell'apostolo Paolo ai Romani rimaniamo meravigliati dall'evento della morte di Gesù, espresso in uno degli interrogativi: «Dio (Padre), che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32). Dio Padre non ha risparmiato Gesù, il suo figlio prediletto! Gesù è stato crocifisso! Dio Padre ha sacrificato il proprio Figlio, lo ha perso completamente in quella morte di croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Greci» (1Cor 1,23). Ma Gesù ci ha dimostrato di essere disposto a perdersi totalmente in nome della gratuità dell'amore, senza mai perdere la comunione fiduciosa con Dio Padre (la sua fede), avendo la ferma speranza della forza vivificante e trasformante di quell'intima e perseverante comunione. Nella prospettiva del perdersi totalmente in nome della gratuità dell'amore, senza mai perdere la fede e la speranza, possiamo interpretare l'evento della trasfigurazione di Gesù. - Il primo segno è la trasfigurazione stessa: «Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,2b-3). Lo Spirito Santo ha ispirato l'evangelista Marco a contemplare solo il candore delle vesti di Gesù. La veste bianca splendente non è solo una manifestazione anticipata della risurrezione di Gesù; può rappresentare anche la comunione perseverante di Gesù con il Padre. La Parola di Dio ci invita a «rivestirci di Cristo» (Rm 13,14), cioè a vivere in costante comunione con il Signore, affinché la nostra esistenza diventi un " sì" alla volontà di Dio Padre, guidati dallo Spirito Santo, vivendo la nostra vita quotidiana per Cristo, con Cristo e in Cristo. Vogliamo «rivestirci di Cristo» perché Gesù ha vissuto "rivestito" di comunione con il Padre, ha perso la vita per la nostra salvezza nella sua morte in croce, perché non ha mai perso la comunione con il Padre, pur avendo gridato l'umana sensazione della sua lontananza: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34b). - Il secondo segno è l'apparizione di Elia e Mosè: «Gli apparvero Elia e Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 8,4). Elia e Mosè non rappresentano solo tutta la tradizione dell'Antico Testamento, della Legge (Mosè) e dei profeti (Elia), per insegnare agli apostoli e a noi che Gesù è il «Verbo fatto carne» (Gv 1,14), ci rivela definitivamente il mistero della Santissima Trinità e il suo progetto di salvezza per l'umanità e per l'intera opera della creazione! Mosè ed Elia possono rappresentare anche tutti i servi di Dio che hanno sperimentato nella vita la sfida di "perdere tutto", in nome della loro missione e vocazione, senza mai perdere la fede e la speranza. Elia rinnovò la sua comunione con Dio e la sua speranza dopo aver attraversato la crisi della fuga, della solitudine, del desiderio di morire nel deserto, cioè la crisi della perdita del senso della sua missione profetica. Dio non lo aveva abbandonato ed egli non aveva mai smesso di cercarlo e di trovarlo nel silenzio della brezza leggera che lo avvolgeva fuori della grotta, sulla cima del monte Horeb (cfr 1 Re 19,1-17). Mosè perse la possibilità di entrare nella terra promessa, senza perdere la fede e la speranza nella realizzazione del disegno divino di salvezza per il popolo di Israele (cfr Dt 34,1-12). - Il terzo segno coinvolge i tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni: preghiamo immaginando il contrasto tra la "bellezza o bontà di restare" nella visione, proponendo «di fare tre tende, una per Gesù [trasfigurato], un'altra per Mosè e un altro per Elia», e l'essere «molto spaventati» per l'arrivo della «nuvola che li copriva con la sua ombra» (Mc 9,5-7a). È la promessa della nostra piena ed eterna partecipazione alla comunione con Cristo glorificato unito al Padre nello Spirito Santo, in comunione con tutti i santi (Mosè ed Elia), che ci attende dopo la nostra morte fisica. Per questo, non è il momento di fare una tenda anche per gli apostoli. Ma questo destino di gloria deve necessariamente passare attraverso l'esperienza di essere avvolti da una nube che suscita grande paura: è l'attraversamento di ogni nostro lutto, di tutte le nostre perdite, dovuto al fare della nostra corporeità vivente un umile strumento di irradiazione della gratuità dell'amore divino, promuovendo relazioni di pace, di giustizia, di rispetto del prossimo, di fraternità, in mezzo a tante, anche troppe tribolazioni. La pienezza della comunione eterna, perseverando fermamente nella fede in Dio e nella speranza della realizzazione del suo Regno, richiede la disponibilità a "perdere" tutto ciò che "abbiamo e siamo" in nome della carità, cioè della gratuità dell'amore, invocando incessantemente lo Spirito Santo. - Il quarto segno è la voce: «Questi è il mio Figlio, l'amato. Ascoltatelo!» (Mc 9,7). Siamo subito invitati a custodire nella mente e nel cuore il segreto dell'evento della trasfigurazione: «Gesù comandò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, finché il Figlio dell'uomo non fosse risorto dai morti» (Mc 9,9). «Ascoltare Gesù» significa camminare accettando la realtà del "già, ma non ancora" della realizzazione del Regno di Dio nella nostra vita e nella storia dell'umanità. Gli apostoli già contemplavano il regno di Dio in Gesù di Nazaret, maestro nei suoi insegnamenti e potente nei suoi miracoli. Ma bisognava attendere l'evento centrale dell'intera storia della salvezza: quello della sua morte e risurrezione, anticipato nella visione della trasfigurazione. Oggi manteniamo in segreto la nostra fede in Cristo, Re dell'universo, poiché Gesù è già stato crocifisso e risuscitato (cfr Ef 1,10). Ma siamo sfidati a perseverare in questa fede e speranza nella vittoria dell'amore gratuito, gettati in un mondo sempre più pagano, senza Dio al centro, pieno di guerre e ingiustizie, dove «camminiamo alla presenza del Signore nella terra dei viventi» (Sal 116B,9), vivendo la sfida di"perdere la vita" senza avere un immediato ritorno soddisfacente nella nostra vita quotidiana. |