Omelia (21-04-2024) |
don Giampaolo Centofanti |
"In verità, in verità, vi dico: chi non entra dalla porta nel recinto delle pecore ma sale da un'altra parte è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1). Dalla porta si entra, da un'altra parte si sale, ci si arrampica sulla staccionata. Dalla porta si entra con rispetto, amore, a misura, perché, quando, qualcuno da dentro liberamente apre. Nella misura in cui, nella grazia, può, è chiamato, vuole, aprire. Dalla staccionata si entra con la varia imposizione, con la forzatura, con l'inganno. Può, tra l'altro, accadere che un, magari inconsapevolmente, falso bene vissuto sulle proprie inesistenti forze, sul proprio io dunque, il moralismo per esempio, orienti appunto al prevalere di sé stessi anche di fronte a criteri magari talora evidenti di correttezza umana e di fede. "Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore" (Gv 10, 2). Il pastore, Gesù, entra nel recinto dalla porta, che gli viene aperta dal portinaio. Evidente il riferimento alla Chiesa, il recinto, e ai pastori, specie al pontefice e, con lui, al collegio dei vescovi, il portinaio. Le pecore ascoltano la voce del loro pastore che le chiama per nome e le conduce fuori. La naturalezza, connaturalità, di tutti questi passaggi è molto significativa. Pensiamo alle pecore che ascoltano la voce del pastore. Qualcuno potrebbe dire: "Magari!". Ma qui, come sempre, Gesù parla un linguaggio spirituale. Il cuore può realmente ascoltare solo la voce amorevole di Dio. Solo Dio, solo Cristo, può chiamare nel cuore, per nome, ogni specifica persona e condurla fuori, per il cammino della sua vita. Altre chiamate, altre uscite, sono esteriori ma il cuore non è toccato in profondità. Non ascolta in profondità, non esce realmente. Il pastore talora, dice il testo, "spinge fuori" le pecore. Ma anche qui vi è amore, naturalezza, consonanza reciproca nel profondo: nessuna forzatura, pressione, fuori posto, non a misura. Dal testo emerge uno spingere con dolcezza. Le pecore riconoscono, sanno, la voce, il suono, del loro pastore. Che il linguaggio è spirituale lo si vede anche dal fatto che le pecore escono insieme. Vi è una comunione profonda che le unisce per le pur diverse strade della vita. Portano dovunque l'amore di Dio, quello loro e anche quello di tanti fratelli, insieme. Il pastore dopo aver fatto uscire le pecore cammina davanti a loro. Vi è dunque anche uno stare dietro e in mezzo al gregge, attendendo che tutte le pecore siano uscite. Il pastore lo vediamo contemplare le pecore mentre escono, mentre si fermano ricomponendo il gregge fuori del recinto. Il pastore impara il cammino autentico di ogni pecora dalla pecora stessa, in quella situazione, con quelle altre pecore. Se il pastore è una persona umana tanto più comprendiamo che i suoi modi, i suoi tempi, sono orientati in tante cose dalle pecore. E dalle pecore il pastore ha tanto da imparare su tutto, su Dio, sull'uomo, sul mondo. È tutto un imparare, spirituale e umano, in ogni cosa, anche del pastore. Altro che risposte prefabbricate, meccaniche... Così l'amore può, per grazia, orientare gradualmente il pastore a mettersi sempre in discussione, spiritualmente, umanamente, per comprendere meglio, incontrare meglio, le persone. Potrebbe accadere invece, per esempio non avendo ricevuto una grazia in tal senso, di vivere l'essere pastore come autoritarismo, dominio; di fare di sé il metro di ogni cosa, persino di Dio; di stare nella falsa sicurezza di sé, magari senza avvedersene. Una rinnovata formazione, per esempio, dei pastori comporta anche un imparare a mettersi serenamente in discussione, ad ascoltare, a chiedere aiuto, spiritualmente e umanamente. |