Omelia (05-05-2024)
Agenzia SIR
Commento su Giovanni 15,9-17

La sesta domenica di Pasqua B propone il seguito del discorso di Gesù sulla vite e i tralci presentato nella domenica precedente. Siamo ancora nel cap. 15 del Vangelo secondo Giovanni, nel contesto dei discorsi d'addio con cui Gesù prepara i suoi agli eventi drammatici della Passione e alla loro vita futura senza la sua presenza fisica. La sottolineatura della reciprocità tra Gesù, Padre e discepoli e l'invito a "rimanere" (mèno) in tale reciprocità sono ribaditi anche nei vv. 9-11 di questa seconda parte del capitolo, così come l'idea del portare frutto, qui con una maggiore dimensione missionaria (cfr. v. 16).

I vv. 12-17, però, invitano i destinatari a un passo ulteriore, perché fa il suo ingresso nel discorso il comandamento dell'amore (si noti la circolarità tra i vv. 12 e 17). In realtà esso era stato già proclamato da Gesù alla fine del cap. 13 (vv. 34-35), dopo i due gesti emblematici della lavanda dei piedi e del dono del boccone al traditore Giuda. Il fondamento di tale comandamento è, infatti, l'amore fino alla fine (13,1) con cui Gesù ha amato i suoi. Il kathòs ("come"), l'unità di modo e di misura di tale amore, risale addirittura fino al Padre stesso e Gesù ne è tramite e modello, affinché quella comunione che anima la relazione tra Padre e Figlio si faccia carne anche nelle relazioni della comunità riunita attorno a Gesù. Così potrà esprimersi concretamente il rimanere, in un fare e in un essere che distinguano i figli della luce da quelli delle tenebre e così la gioia che Gesù vive potrà essere sperimentata anche da loro (v. 11).

Il lessico dell'amore (agàpe, agapào) riempie i versetti seguenti, scandendo la qualità e insuperabilità dell'amore di Gesù, che giunge a dare la vita per i propri amici. E anche le relazioni, così, vengono ridefinite, perché egli ricorda ai suoi di averli eletti come amici: non ne ha fatto dei servi (doùloi), ma dei phìloi, amici con i quali ha condiviso la sua ricerca di senso e le ragioni del suo agire e tutto ciò ha udito dal Padre suo (v.15).

Un Dio che sceglie l'uomo come amico è stato già la grande rivelazione del Primo Testamento: un Dio che chiama Abramo "amico mio" (Is 41,8; cfr. anche 2Cr 20,7; Dn 3,35 e, nel Nuovo Testamento, Gc 2,23) e che parla con Mosè «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico.» (Es 33,1). Non a caso la Dei Verbum sceglie questa immagine (e non quella più tradizionale, ma certamente più asimmetrica, della relazione filiale) per esprimere il fine della rivelazione divina:

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. (DV 2)

I discepoli di Gesù (non solo i dodici, si intenda bene, ma ciascuno/a di coloro che erano radunati attorno a Gesù e ciascuno/a di noi oggi) non sono trattati da schiavi, soggetti ai capricci di un padrone, ma prescelti (v. 16a), trattati da pari, amati incondizionatamente e "costituti" per una missione feconda (v. 16cd), cioè riconosciuti capaci di reciprocità, responsabilità, autodonazione. Se l'elezione è gratuita e incondizionata, l'adesione volontaria a questa scelta può e deve tradursi nell'impegno della sequela, dove si può dare fecondità alla missione e offrire occasione di riscatto anche all'amore che è stato finora respinto, tradito o rinnegato.

Commento a cura di Annalisa Guida