Omelia (05-02-2006)
don Mario Campisi
Un miracolo apparentemente insignificante

Il problema della sofferenza da sempre tormenta l'uomo di ogni tempo e di ogni cultura. Anche la Parola di Dio, cartina tornasole per eccellenza della condizione umana, si fa carico del grido di dolore che sale incessante dalla terra.

Anche la liturgia di questa domenica ci presenta alcune immagini di persone sofferenti come la suocera di Pietro e gli altri miracolati di Cafarnao e, soprattutto, Giobbe. Egli è il simbolo universale del tema della sofferenza. Il libro di Giobbe partendo dal tema della sofferenza approda su un'altra linea: da un lato la gratuità della fede e dall'altro il vero volto di Dio non riducibile a schemi mentali puramente umani. Giobbe, attraverso la via oscura della sofferenza, diventa il modello del credente che ama il vero Dio incondizionatamente. Anche se Giobbe rimarrà fedele ciò non gli impedirà di cogliere l'aspetto terribile e scandalizzante del dolore. Solo in questa dimensione di logica superiore il dolore ha un senso e una collocazione che la logica umana rifiuta o non ritiene possibile.

E' di questo tipo anche la fede proposta dal Vangelo di oggi: essa non è il frutto entusiasta di un miracolo, ma la risposta gioiosa a una richiesta che esige disinteresse. Credere non sarà soltanto pronunciare una definizione esatta su Gesù, come sanno fare anche i demoni, ma aderire alla sua persona mettendosi nella sua logica, la via della croce. Per questo l'atteggiamento vero della fede è incarnato dalla suocera di Pietro che, guarita dalla "febbre", si mette subito a "servire" Gesù e i fratelli (Mc 1,31).

Il dolore vissuto da Giobbe era un simbolo della vicenda universale dell'umanità. Il Cristo nel suo agire si indirizza verso questa realtà universale: egli non si rivolge solo ad alcuni, ma di "tutti" condivide l'ansia, la sofferenza e le attese perché "Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15,28). Comprendiamo allora bene come la totalità stia alla radice della fede, è lo scopo della fede, è la qualità del cammino della fede.

L'episodio che oggi Marco ci racconta è il miracolo apparentemente più insignificante del Vangelo. Marco tuttavia gli dà una certa importanza tanto da porlo come primo miracolo. Se ricordiamo bene Gesù inizia – nel Vangelo di Marco – invitando a "credere" (v. 15), che in concreto significa "seguirlo" (vv. 16-20). La sua parola nuova vince in noi lo spirito del male suscitando meraviglia (vv.21-28).

Qui, in questo brano, abbiamo il primo risultato della vittoria sullo spirito del male, sullo spirito possessore dell'uomo; la suocera di Pietro, infatti, guarita dalla "febbre", si mette a "servire". In senso più profondo ella è guarita "totalmente" dalla febbre e quindi può benissimo mettersi a "servirli" seguendo Gesù e vivendo ormai nello spirito di colui che dice di se stesso: "Non sono venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45).

Il "servizio" non è il modo tipico esclusivo della sequela femminile: è la vera sequela per tutti! Questa donna che, come tale, nella cultura ebraica contava poco, anziana e vecchia e per di più suocera, è colei che per prima incarna e testimonia lo spirito del Signore: "Dio ha scelto le cose che non sono per ridurre a nulla quelle che sono" (1Cor 1,28). Sono queste realtà piccole e sconosciute della nostra vita che Marco pone spesso come episodi fondamentali del Vangelo: "Chi ha orecchie per intendere, intenda!" (4,9).

Se poi si considera che progressivamente, già nel cap. 3°, la casa diventa nel pensiero di Marco simbolo della Chiesa, allora questo episodio diventa particolarmente illuminante. E allora: di quale "febbre" dobbiamo essere guariti nella Chiesa? (cfr. 9,33-35; 10,35-45; 12,38-40). Quale deve essere lo spirito nuovo nella Chiesa, e chi lo incarna?

Il potere, inteso come dominio dell'uomo sul proprio simile, è la radice del male. E ciò può avvenire in diverse maniere. Si può spadroneggiare su un altro uomo con la violenza della forza, ma anche con la seduzione e la pressione della pubblicità; una classe può dominare un'altra classe economicamente e socialmente imponendo la cultura dominante. La logica è sempre la stessa: l'altro uomo è privato della sua libertà e ridotto così ad oggetto delle decisioni altrui dominanti. Ecco allora perché l'uomo ha bisogno di essere liberato dalla malattia mortale (la "febbre" di cui ci parla oggi il Vangelo) del potere.

L'autorità non è autoritarismo, ma servizio: non sono i figli per i genitori, ma i genitori per i figli; non è il cittadino per lo Stato, ma lo Stato per i cittadino. La Chiesa, per la sua stessa natura e volontà del suo Divino Fondatore, è coinvolta in pieno nel discorso sul servizio degli uomini. Davanti ai tanti messaggi evangelici indicatici, ci viene spontaneo chiederci se anche noi come singoli o come comunità, non siamo tentati a volte di assumere forme di potenza troppo mondane antitetiche al messaggio di Cristo. La Chiesa stessa è chiamata a una continua conversione che le consenta di vivere in uno spirito e con strutture non di potere, ma di servizio. I pastori non sono costituiti nella Chiesa per esercitare il potere e spadroneggiare sul popolo e soprattutto sui deboli, ma per svolgere il loro ministero di servizio alla comunità cristiana. La Chiesa deve sciogliersi, come il sale, il lievito e il seme, in puro servizio per la liberazione totale dell'uomo.

La fine della giornata a Cafarnao è contrassegnata da una serie di miracoli operati al tramonto del sole e stanno a ravvivare con la loro luce il crepuscolo e ad illuminare la notte. Inoltre il motivo di Gesù di imporre ai demoni di non parlare "perché essi lo conoscevano", dimostra il fatto che egli appartiene ad un ordine "spirituale", che solo gli spiriti intuiscono.

Altro elemento da notare è l'uscire da casa di Gesù "quando ancora era buio" per pregare "in un luogo deserto". La preghiera di Gesù deve essere stata un silenzio o ascolto di Dio, un dialogo talora drammatico con Lui (non dimentichiamo Gesù in preghiera nell'orto del Getsemani la notte dell'arresto). La preghiera è una lotta per non fermarsi sul cammino della libertà: avviene dopo una grande giornata di fatica ed esige un saper uscire da questa stessa fatica – "uscì in un luogo deserto". E' un esodo continuo, alla luce di Dio che illumina la notte, che impedisce di cadere nella trappola del pensiero dell'uomo, cioè nella tentazione: "Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole" (Mc 14,38).

Sarà in forza di questa preghiera che Gesù potrà rispondere a Pietro: "andiamo altrove". Per pregare bisogna, come Gesù, agire, e saper uscire sempre nel deserto in cui Dio ci parla e ci rinnova con la sua Parola, facendo sgorgare nel nostro cuore una fonte d'acqua viva, che non stagnerà mai. La preghiera è una lotta con Dio in cui Dio perde e ci si concede. Gesù supera così nella preghiera la tentazione di un messianismo mondano, in cui "tutti lo cercano", rifiuta la via degli uomini e ritrova la via di Dio: "Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!»" (Marco 1,38).