Omelia (12-05-2024) |
don Alberto Brignoli |
Uomini di Galilea Tra i vari racconti biblici dell'Ascensione, ossia del momento in cui il Signore Gesù termina la sua presenza fisica - durata poco più di trent'anni - in questo mondo, quello certamente più esteso e dettagliato è quello dell'evangelista Luca. Matteo e Giovanni, infatti, non ne parlano proprio. Marco - che abbiamo ascoltato oggi nella Liturgia - pure lui, inizialmente, ha omesso questo racconto, perché il testo originale del suo Vangelo termina con le donne che tornano impaurite dal sepolcro dopo aver ricevuto dagli angeli l'annuncio della Risurrezione, ed erano talmente spaventate che non raccontano nulla agli Undici; e questo era molto verosimile, storicamente parlando, talmente verosimile che qualche discepolo di Marco, temendo che questo annuncio passasse inosservato e di conseguenza nessuno credesse alla Risurrezione di Gesù, aggiunge almeno due conclusioni al testo originale, una delle quali - quella appunto che abbiamo ascoltato oggi - mostra Gesù risorto che appare agli Undici in una sola volta e affida loro l'annuncio del Vangelo prima di essere "elevato in cielo" per sedersi alla destra di Dio. Tutto questo, perché la Comunità dei credenti fosse rafforzata nella fede e nella sua quotidiana fatica della testimonianza. Luca, invece, insiste così tanto su questo fatto dell'ascensione di Gesù al cielo che lo narra per ben due volte: una - appena accennata - al termine del suo Vangelo, nella quale Gesù sembra quasi dare appuntamento ai discepoli per la seconda parte di questa sua vicenda, dicendo loro di non allontanarsi da Gerusalemme in attesa che discenda su di loro lo spirito Santo; la seconda narrazione è quella maggiormente nota a tutti, perché ogni anno la leggiamo nella prima lettura della Liturgia della Parola di questa solennità, ed è ovviamente l'inizio degli Atti degli Apostoli, la seconda grande opera di Luca, scritta per buona parte in prima persona, in qualità di compagno di viaggio di Paolo. Ebbene, in questo racconto Luca utilizza un'espressione che potrebbe passare in secondo piano, rispetto al senso globale del fatto narrato: eppure, io ritengo si tratti di un particolare importante, perché è un'espressione assolutamente unica, non solo nelle opere di Luca, ma in tutto quanto il Nuovo Testamento, e addirittura in tutta la Sacra Scrittura. È l'espressione con cui i due "uomini in bianche vesti" che avevamo già imparato a conoscere a Pasqua, precisamente davanti al sepolcro vuoto, si rivolgono a quelli che erano con Gesù e che, improvvisamente, lo vedono elevarsi in cielo, sottratto alla loro vista da una nube. Mentre fissano stupiti questo doloroso momento che il cielo riserva loro, si sentono chiamare dai due uomini in bianche vesti in questo modo: "Uomini di Galilea". Che cosa avranno voluto dire, con questo "epiteto", con questo "nomignolo"? Che gli Undici fossero tutti originari della Galilea, come del resto agli occhi della gente lo era anche Gesù (anche se era nato in Giudea, a Betlemme), non ci piove: ma che bisogno c'era di ribadirlo a loro? E perché chiamarli così, dal momento che poteva anche suonare come qualcosa di non proprio "carino" nei loro confronti? Non dobbiamo infatti dimenticare che gli abitanti della Galilea non erano visti di buon occhio da tutti gli altri abitanti d'Israele, in particolare dai Giudei (e non per niente, quando Pietro e gli altri inizieranno a predicare dopo la Pentecoste si rivolgeranno ai loro uditori chiamandoli "Uomini di Giudea" o "Uomini d'Israele"). Questa naturale e ancestrale diffidenza veniva dal fatto che la Galilea era una terra di confine (si trovava vicina al Libano, la terra dei Cananei-Fenici, e confinava con la Siria, con il Lago di Tiberiade da una parte e con il mar Mediterraneo dall'altra, quindi luoghi di transito e di commercio): come ogni terra di confine, la contaminazione con i popoli vicini, dal punto di vista culturale, religioso e linguistico era evidentissima. Talmente evidente che tutti si accorgono dei discepoli di Gesù al momento del suo arresto, perché è sufficiente che aprano bocca e vengono subito "sgamati" (pensate che addirittura in Giudea era proibito ai Galilei leggere la Parola di Dio nelle sinagoghe per i loro difetti linguistici!). Non solo: gli Ebrei più ortodossi (tra cui ovviamente i farisei) ritenevano che la fede ebraica dei Galilei si fosse "imbastardita" con i culti dei popoli stranieri vicini, e quindi non fosse una fede genuina. Ci mancava, poi, che nella storia recente del popolo d'Israele la maggior parte delle rivolte contro il potere di Gerusalemme e dei Romani venisse dalla Galilea, e la diffidenza - se non addirittura l'odio - verso gli "uomini di Galilea" era una cosa pressoché scontata. Eppure, è proprio a questi "uomini di Galilea" che viene affidata la testimonianza di uno dei momenti fondamentali della vicenda storica di Gesù: il suo ritorno alla casa del Padre, dopo la Resurrezione. È a questi "uomini di Galilea", trogloditi e paganeggianti agli occhi di tutti, che viene concesso di vedere Gesù per l'ultima volta; è a questi "uomini di Galilea", dalla pronuncia impacciata, che verrà affidato l'annuncio della Resurrezione, e per di più in oltre quindici lingue in un giorno solo, come ascolteremo domenica prossima nel racconto della Pentecoste. È a questi "uomini di Galilea", uomini della terra di confine, che viene affidata da Gesù stesso, nel brano di oggi, la testimonianza del Vangelo "fino ai confini della terra". È a questi "uomini di Galilea", rivoluzionari per tradizione e dal sangue ribollente e sovversivo, che viene affidato il messaggio più rivoluzionario della storia, ovvero che Dio "ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote", per usare le parole di una "Donna di Galilea D.O.C.G.". Ma perché questo avvenga (e perché avvenga non solo per questi "uomini di Galilea", ma anche per noi, che di questi Galilei siamo figli e discepoli) è necessario "non stare a guardare il cielo"; è necessario liberarsi da tutte quelle nostalgie dei tempi perduti che altro non sono se non limiti per l'annuncio del Vangelo; è necessario avere, senza dubbio, sapore di cielo nella nostra bocca, colore di cielo nei nostri occhi, desiderio di cielo nel nostro cuore, ma con i piedi ben piantati in terra; quella terra sulla quale Gesù di nuovo "verrà allo stesso modo in cui oggi l'abbiamo visto andare in cielo", ma che nel frattempo ha assoluta necessità del nostro annuncio di speranza. |