Omelia (19-05-2024) |
don Alberto Brignoli |
La carne e lo Spirito Personalmente, ho sempre creduto in una religione (ma preferirei dire "in una fede") che, pur dandomi alcune indicazioni di comportamento, non elimina mai il riferimento principale alla mia coscienza, e al suo contatto quotidiano (fatto di alti e bassi, ovviamente) con la Parola di Dio e la comunità dei miei fratelli di fede. Credo, però, che esista anche un atteggiamento molto frequente, in tanti cristiani - anche delle nostre comunità - che confondono o fanno coincidere la fede con la religione, e in particolare con una religione fatta di un insieme di pratiche, di comportamenti, di norme e di precetti che danno loro la salvezza e li fanno sentire a posto per il solo fatto che li osservano, al di là dello spirito che li pervade e che, ovviamente, è più grande di essi. Già, si tratta proprio dello Spirito: la differenza tra religione e fede sta nel riconoscere in noi la presenza dello Spirito che riempie ogni cosa e le dona senso, forza, vitalità, vita. Quello che Paolo ci ha narrato nella seconda lettura di oggi è solamente un assaggio di quanto egli ha vissuto, quando si è sforzato di predicare una vita nello Spirito agli abitanti della Galazia e ha poi visto il suo sforzo vanificato da altri apostoli, giunti dopo di lui in quella terra a predicare un Vangelo fatto non di incontro vero con Gesù, ma di norme, di precetti e di leggi da compiere, molte delle quali provenienti da quella religione giudaica che Paolo aveva cercato di superare. Attaccarsi a una lista di leggi da compiere per giungere alla salvezza significa - dice Paolo - vivere "secondo la carne", ovvero secondo realtà umane che hanno poco respiro, che sono "minimaliste" perché si accontentano del "minimo" indispensabile. La vera fede ti chiede invece di fare il massimo, di metterci la faccia, di giocare di persona e in prima persona, di assumere con responsabilità l'impegno del credere, oltre e ben al di là di una serie di leggi da compiere. E una fede così, non può che essere frutto dello Spirito. Le opere della carne - addirittura quattordici, nella seconda lettura di quest'oggi - per essere sconfitte chiedono a noi necessariamente di costruirci un baluardo, una fortezza dietro la quale arroccarci per difenderci dagli attacchi del "mondo cattivo". E una religione del precetto e della norma, in questo ci dà una mano, perché in buona sostanza ci dice: "Osserva questi comportamenti, e nessuna opera della carne ti potrà abbattere, nonostante tu venga continuamente provato e tentato". Potrebbe sembrare una dichiarazione di certezza e di incrollabilità. A me, invece, questo dà la sensazione di un profondo senso di insicurezza, che pervade la vita di chi vive una religione in questo modo, ovvero con il bisogno di avere sempre calate dall'alto norme e indicazioni certe che vincano le nostre insicurezze. Ma l'insicurezza è quasi sempre segno di immaturità umana e spirituale. Preferisco una vita in cui le certezze e le sicurezze me le costruisco da me, magari - perché no? - anche con l'aiuto di norme o di precetti, ma principalmente facendo riferimento alla mia coscienza e all'assunzione delle mie responsabilità, che a volte comporta anche cadute ed errori (perché poi, non è che le norme e i precetti non sbaglino mai...), ma ti fa pure riscoprire la bellezza del perdono. Soprattutto, preferisco la vita nello Spirito, quella che ci rende una cosa sola con Dio in Cristo Gesù, come uno solo è il frutto dello Spirito, che diviene poi infinita ricchezza di doni e di virtù. Ciò che allora scende sui discepoli riuniti a Gerusalemme "in un luogo chiuso, per paura dei Giudei" non è solo una manifestazione particolare di Dio: è un dono unico, singolare, particolare, che fa scaturire in modo naturale (come il frutto da un albero, appunto) tutte le virtù di cui ogni uomo è capace, se si lascia pervadere dallo Spirito. Allora, non sarà la formalità di un rapporto sancito da una legge, o un attestato che certifica il nostro vincolo di fronte alla società, a dire la bontà e la bellezza del mio rapporto con la persona che amo; sarà invece la forza dell'amore, che fa belle e nuove tutte le cose, in modi, forme e atteggiamenti che a noi, forse, non è dato comprendere fino in fondo, ma dai quali non può che scaturire il bene. Perché l'amore è capace di diffondersi da sé, senza bisogno di leggi o di norme che lo regolino o, peggio ancora, lo vietino. Non saranno le espressioni serie del mio viso o le mie mani giunte quando sono in chiesa a dire al mondo che prendo sul serio Dio; sarà invece la gioia che esce dal mio cuore e si stampa sul mio sorriso e nei miei occhi - dentro e fuori da una chiesa - a testimoniare che ho scoperto chi e cosa davvero conta nella vita. Non sarà l'ansia di avere sotto controllo ogni cosa attraverso l'esercizio dell'autorità a farmi sentire sicuro di me stesso; saranno invece sentimenti di pace e di mitezza a rendermi più credibile ai fratelli che mi incontreranno, anche a costo di sembrare fragile e vulnerabile. Non saranno giudizi e parole di condanna verso ciò che accade nel mondo a fare di me un profeta della verità; saranno invece atteggiamenti di benevolenza, di magnanimità e di bontà verso ogni uomo, soprattutto verso i più deboli, a rendermi testimone di un Dio che è Padre più che padrone, di un Gesù che è Fratello più che capo, di una Chiesa che è Madre più che maestra. E non sarà compiendo "alla lettera" le norme e i precetti della mia religione che io mi renderò santo e irreprensibile agli occhi di Dio; saranno invece la fedeltà a lui e il dominio del mio orgoglio a fare di me un uomo o una donna dello Spirito che vive nello Spirito, testimonia lo Spirito, contribuisce a diffondere lo Spirito di Dio nella storia dell'umanità. Perché le norme, i precetti, i riti e le istituzioni - spesso di natura puramente umana - possono anche mutare, e addirittura venire meno; ma Dio non farà mai mancare lo Spirito alla sua Chiesa e all'umanità intera. |