Omelia (26-05-2024)
don Antonino Sgrò
L'Amore parla al plurale

Pensare al luogo dove hai vissuto la tua infanzia, aprendoti alle prime esperienze e relazioni significative, quelle che rimangono più impresse, è sempre emozionante; tornarci quando sei diventato grande è anche commovente, perché sembra che quelle vie, case, angoli si ripopolino di volti, suoni e profumi che hanno accompagnato anni felici. È in qualche modo l'esperienza degli apostoli, a cui il Risorto ha dato appuntamento in Galilea, luogo delle origini della loro storia con Gesù, terra dell'apprendistato di una fede che ha bisogno di salire «sul monte», là dove Dio si è sempre rivelato nella sua verità e dove l'uomo ha ricevuto in consegna le parole più importanti. Gli occhi degli Undici vedono e le ginocchia si prostrano nel riconoscimento di Colui che è luce di bellezza e terra su cui camminare. Tuttavia questo angolo di paradiso è attraversato dal dubbio. Come è possibile che anche i momenti più solenni, in cui sembra che tutto sia al posto giusto, vengano macchiati da quella opprimente incertezza capace di rovinarti le cose più belle? Eppure «Gesù si avvicinò»; Dio non ha problemi ad accostarsi e a parlare alla nostra incoerenza, a dialogare con un cuore frammentato che non sa se fidarsi o no, se ama più il Signore o il peccato. E non ti dà briciole di amore o di verità: ti rivela se stesso.
Il Risorto si presenta come Colui a cui «è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», ossia Colui che unisce la realtà di Dio e quella dell'uomo con la forza dell'amore, e che tra poco, con l'ascensione al Padre, porterà l'umanità per sempre nel seno della Trinità. «Andate» con la gioia di un cuore riconciliato perché il cielo non è più ostile, anzi mai lo è stato: prima non lo si sapeva, mentre adesso la novità sarà scoprire di far parte di questo cielo. La forza d'amore che lega ciò che prima appariva inconciliabile viene donata agli apostoli e per mezzo loro a tutti gli uomini. «Fate discepoli tutti i popoli», perché la fede è camminare, incontrare volti e vivere l'ebbrezza di generare nuovi discepoli e figli con l'insegnamento e il battesimo. Predicare e immergere nell'amore di Dio è il comando definitivo che Cristo lascia alla sua Chiesa. Non si tratta di impartire una dottrina o di compiere un rito di iniziazione, ma di introdurre in una relazione con tre persone che sono in perenne e perfetta comunione tra loro. È «nel nome» delle tre persone divine che si dispiega tale chiamata alla fraternità universale: poiché Dio è relazione, chi si riconosce in Lui scopre un'attitudine alla comunione in qualunque luogo e circostanza. Ricordo ad un campo estivo un giovane educatore che si avvicinò chiedendomi: ‘Vuoi essere mio amico?' A distanza di pochi mesi, quando divenne seminarista, capii che non stava esibendo il patentino di bravo catechista, ma esprimeva con entusiasmo il suo desiderio di prossimità ‘nel nome' del Dio di cui era innamorato. Una volta scoperto che esisti perché Qualcuno ti ha voluto e si prende cura di te, allora sei disposto ad ascoltarlo e ad aiutarlo perché altri facciano la stessa esperienza. Non sei obbligato, ma è l'amore a muoverti, in quanto ti senti portatore dell'unica verità che dà vita.
Gesù ci chiede di insegnare «tutto ciò che vi ho comandato», non una parte del suo messaggio, pur sapendo che esso in tutto o in parte sarà rifiutato da molti. La verità di Dio va annunciata ad ogni uomo senza sconti, senza assecondare la tendenza alla mediocrità o alla manipolazione del reale. Ciò giustifica il tono imperativo di Gesù, che affida un impegno oneroso ma promette la sua continua assistenza. Ed ecco che il vangelo termina come era iniziato, con l'assicurazione della presenza del ‘Dio con noi' «tutti i giorni», quelli in cui Lui è percepito vicino e gradito e quelli in cui può risultare un ospite scomodo perché vorresti svincolarti dalla legge dell'amore che ti fa mettere l'altro e non te al primo posto. Questa presenza si estende «fino alla fine del mondo», poiché tutte le genti devono essere raggiunte dall'annuncio che salva, non soltanto un gruppo ristretto. Cristo infatti non ha fondato una setta di eletti, ma ha fatto sentire ogni creatura eletta da Dio e invitata a raccontare la bellezza di partecipare della stessa vita trinitaria.
È questa la rivelazione massima del Risorto, che ci ha insegnato a chiamare Dio con nomi di famiglia, Padre e Figlio, mentre lo Spirito è come la mamma che con amore fa da ponte tra i due, il respiro divino che ci abita. Non siamo soli perché Dio non è solitudine ma comunione, e noi siamo creati a sua immagine.