Omelia (02-06-2024) |
Paolo Curtaz |
La mia stanza Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i midi discepoli? È qui la tua stanza, Signore, non andare oltre. Qui, nella mia vita piccina e intricata, zoppicante e goffa, incoerente e fragile. Non è una grande stanza, ma è tua. Non è molto luminosa, ma è tua. Ed è arredata e pronta ad accoglierti, da sempre. La stanza della mia anima, dei miei pensieri segreti, delle mie ambizioni, dei miei desideri. Tutto ciò che di vero ho scoperto in me è in quella stanza. E tu, ora, dici che ne hai bisogno. Che hai bisogno di me per celebrare la Pasqua. Per compiere quell'ultimo, folle, inaudito, impressionante gesto che è la Cena consumata con i tuoi amici. L'ultimo gesto. Il vertice. Una cena semplice. Nessuno sfarzo, nessuna magia, nessuna cerimonia. Una stuoia al centro. Piatti in coccio su sgabelli. Piccole lampade ad olio. E la memoria di Pesah, di quella liberazione che ha smosso tutti. I discepoli non hanno capito, tutti presi dalle loro beghe e dalle loro fantasie. La missione è fallita, clamorosamente. Non ti ha accolto la Gerusalemme che uccide i profeti. Le folle plaudenti della Galilea non ti hanno seguito fino a quassù. E i tuoi più stretti amici non sanno nemmeno da che parte sono girati. Invece di disperarti, di gettare la spugna, di fare l'offeso, come avrei fatto io, certamente, ti inventi il modo più inatteso per stare con noi. Eri buono come un pezzo di pane. E un pezzo di pane sei diventato. La tua presenza era come un vino inebriante. E vino sei diventato. Se solo ci credessimo! Tiepidezze Dio, il misericordioso, mi ha dato molte gioie nella vita. Una di queste è quella di conoscere molte comunità sparse nei quattro angoli dell'Italia, e di pregare con loro. Ho partecipato ad assemblee di comunità vivaci, coraggiose, a veglie di preghiera intense, a messe piene di gioia e di emozione. Raramente. Più spesso, partecipo a celebrazioni fiacche, tiepide, distratte, spente, scoraggianti. Che non celebrano un vivente, ma ricordano la buonanima. Una grande finzione. Pia e devota, certo, ma finzione. Quante volte incontro amici che, avvicinatisi al Signore, convertiti alla e dalla Parola, faticano a nutrire la propria spiritualità in grandi città piene di chiese e povere di fede! Quante volte, io stesso, in vacanza, ho partecipato con dolore e insofferenza a celebrazioni raffazzonate, frettolose, senza preghiera! Gesù, però, sceglie di fare "sue" anche quelle stanze. Non ha la puzza sotto il naso, il Signore, si adatta. Ha voluto con sé, nel momento più faticoso della sua vita, i suoi dodici poveri apostoli. Poveri e fragili come noi, instabili e lunatici come noi. Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Me lo ripeto mentre mi nutro di quel brandello di eternità. Così piccolo da non saziare nemmeno un bambino. Un boccone di Dio. Come un fuoco incandescente che illumina e riscalda la mia anima. Allora la mia vita, tutta la mia vita, è orientata a preparare quella stanza, a tenerla in ordine. E la preghiera, la meditazione, l'amore che sperimento e cerco di donare, la partecipazione alla vita comunitaria, la vita bella del Vangelo sono il modo che ho per tenere pronta la stanza. Sangue Le letture oggi parlano di sangue: quello versato sull'altare da Mosè per sigillare il patto fra Dio e il suo popolo, quello di Cristo che sostituisce il sangue di capri e agnelli usati per perdonare i peccati e quello rappresentato dal Maestro durante la prima cena (prima, non ultima) in cui si identifica nel vino. Il sangue, secondo l'antropologia ebraica, custodisce la vita: se una persona perde il sangue perde anche la vita e muore... Gesù dona la sua vita quando ci chiede di condividere il suo sangue. E di non avere paura della fragilità dell'essere rappresentata, nel linguaggio biblico, dalla carne. Come a dire: anche se è poca cosa un po' di pane, anche se sembra un gesto insignificante, partecipando a questa cena, ripetendola in obbedienza, bevendo al vino, voi partecipate della vita di Dio, della mia vita. E così è. Questo, oggi, celebriamo. Oggi Partecipiamo con costanza e forza alle nostre celebrazioni, anche se sbiadite. Se possibile, mettiamoci in gioco per cambiarle, per renderle più gioiose, accoglienti, oranti. Addobbiamola, la stanza alta, rendiamola accogliente al meglio delle nostre forze e delle nostre possibilità. Ma se ciò non è possibile, pazienza. Se si adatta Gesù, noi non ci adatteremo? Viviamo tempi difficili, tempi in cui la fede è messa a dura prova. Oggi celebriamo il Mistero della presenza reale, concreta, attuale, salvifica di Cristo nell'Eucarestia: il Rabbì si rende accessibile, incontrabile, si fa pane del cammino, diventa cibo per l'uomo stremato. Rabbrividisco di fronte alla poca fede mia e delle nostre comunità. Se crediamo che il Maestro è presente, al di là della povertà del luogo e delle persone, tutto cambia. È vero: c'è gente che fa il bene senza bisogno di andare a Messa. Ma per me, cristiano, il Bene deriva dall'incontro con Cristo. È vero: la preghiera può essere personale. Ma l'incontro della comunità ci fa sentire ed essere Chiesa. È vero: non tutte le omelie brillano per attualità e concretezza. Ma è la Parola al centro, non la sua spiegazione. È vero: la domenica è il giorno del riposo Ma il riposo è affare di cuore, non di sonno. Animo, resistenti nella fede, il Signore ci chiede di metterci in gioco. Il Dio che si fa pane ci chiede di diventare cibo per i fratelli. Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? È qui, Signore, vieni pure.
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